(ASI) – Tutto normale man niente sembra essere in regola nelle primarie più combattute di sempre. Da un lato è tornato tutto alla “normalità” di quanto previsto dai sondaggi all’inizio della campagna. Hillary e Trump, i super favoriti rispettivamente in casa democratica e repubblicana, hanno trionfato di misura alle elezioni del “super tuesday”.
I democratici votavano in 11 stati, mentre i repubblicani in 13, ai quali vanno sommati i voti delle circoscrizioni estere tra cui anche l’Italia. Il risultato finale è stato di 9 stati aggiudicati dalla Clinton per i democratici, e 8 stati per Donald Trump in casa repubblicana. Hillary Clinton si è aggiudicata la vittoria in Alabama, Arkansas, Massachusetts (sottratto a sorpresa al rivale Bernie Sanders contro le previsioni dei sondaggi), Tennessee, Texas, Virginia e nelle Isole Samoa. Trump si è invece imposto in Alabama, Arkansas, Georgia, Wyoming (vittoria parzialmente inutile dato che non assegna delegati), Tennessee, Vermont e Virginia. Per l’unico sfidante democratico, il governatore del Vermont Bernie Sanders, la rincorsa alla favorita Hillary Clinton sembra ormai impossibile. Con le uniche vittorie del Vermont, cioè in casa propria, e in Oklahoma, Sanders ha ormai perso il contatto con Hillary Clinton, che a questo punto si è ormai aggiudicata oltre un terzo dei delegati democratici. Nel partito repubblicano invece le sorti delle primarie appaiono meno nette che in casa democratica. Sebbene anche in casa repubblicana Trump si sia ormai aggiudicato oltre un terzo dei delegati, le vittorie degli sfidanti in stati dal forte valore simbolico non gli hanno permesso di consolidare la propria immagine di trionfatore come invece accaduto nel partito democratico per Hillary. Il senatore Ted Cruz, governatore del Texas, è riuscito a confermarsi l’uomo da battere in casa propria, con una netta vittoria nel suo Texas. inoltre è riuscito a confermare anche i sondaggi che lo davano per favorito in Oklahoma. In Minnesota si è invece affermato Marco Rubio, ormai unico candidato moderato rimasto in lizza nelle primarie repubblicane. Viceversa lo stesso Rubio ha dovuto cedere la Virginia a Donald Trump a dispetto di tutti i sondaggi che lo davano per favorito in quanto, come il Minnesota, si trattava di uno stato con forte presenza di moderati. In Virginia infatti Rubio si è dovuto accontentare del secondo posto.
A questo punto la strada verso le presidenziali di novembre sembrerebbe spianata sia per Hillary che per Donald Trump. Eppure proprio da queste fulgide vittorie le sorti delle primarie potrebbero iniziare a volgere a sfavore dei due trionfatori. Da una parte la vittoria di Hillary Clinton è stata possibile solo grazie ad un forte spostamento ideologico verso sinistra resosi necessario per rispondere alle critiche ed ai dubbi sollevati dal “socialista” Sanders nei confronti della leadership democratica e della collusione tra quest’ultima e l’alta finanza. Per poter inoltre rispondere al programma di Sanders volto alla costituzione di uno stato assistenziale e previdenziale per le fasce più deboli a spese delle elite, soprattutto dell’alta finanza di Wall Street, la Clinton ha dovuto rispondere con la strategia dello scontro razziale riuscendo a sollevare una vera e propria “armata” elettorale afroamericana il cui peso numerico ed ideologico ha reso possibile il trionfo nel “Super Tuesday”. Questo forte spostamento a sinistra rischia però di rivelarsi il classico “castello in aria” per Hillary, poiché, a fronte di un immagine basata su dogmi ideologici cari alla sinistra (povertà, istruzione, uguaglianza e diritti), unita ad una forte connotazione filantropica, peraltro già consolidata da tempo, non corrisponde la sostanza. Come più volte ricordato dal più razionale Sanders, la Clinton ha fin troppi “scheletri nell’armadio”, a cominciare dai suo stesso status sociale di donna ricca e di potere in netto contrasto con l’immagine di donna del popolo precedentemente descritta. Altra freccia all’arco di Sanders, i rapporti assidui che la legano al mondo dell’alta finanza di Wall Street, ed in particolare il suo contributo ad ostacolare qualsiasi forma di limitazione alle speculazioni finanziarie. In sostanza, anche se Hillary vincesse le primarie democratiche, come sembra ormai sempre più probabile, le contraddizioni che la caratterizzano, unite ad un partito democratico comunque spaccato tra il movimentismo razionale di Sanders, e l’impeto ideologico di Hillary, potrebbero seriamente condizionare gli esiti della corsa alla Casa Bianca se Sanders decidesse di continuare nella sua crociata contro i vertici del partito. In casa repubblicana il futuro di Trump potrebbe essere ancor più problematico. Nonostante si sia rivelato in più di un occasione il vero candidato vincente, quello che non solo ha quasi sempre sbaragliato gli sfidanti, ma soprattutto l’uomo in grado di attirare i consensi anche degli elettori degli altri candidati, il magnate newyorkese continua ad essere ancora inviso alla leadership del partito repubblicano. Nonostante si tratti molto probabilmente dell’unico politico occidentale che, politicamente parlando, sia “sopravvissuto” ad un scontro con il Papa dopo aver addirittura contrattaccato alle ingerenze di Bergoglio, il partito continua a considerarlo un candidato non in grado di assicurare la vittoria finale alle presidenziali di novembre. Malgrado le critiche però, attualmente, la stessa leadership del partito non è in grado di esprimere un valido candidato da opporre a Trump. Il candidato ideale, cioè Rubio, pare ormai essere irrimediabilmente condannato al terzo posto nella sfida delle primarie. Ad ogni modo è assai probabile che si attenderà la sfida del 15 marzo in Florida per decidere come affossare Trump e quale candidato da opporgli presentare. In quel giorno infatti si terranno le primarie repubblicane in Florida, stato di cui Rubio è il governatore. Una sua vittoria potrebbe galvanizzare la leadership repubblicana e spingerla a creare una trappola per Trump, architettando un ritiro contemporaneo di tutti gli altri sfidanti in lizza i quali potrebbero “donare” i propri delegati su indicazione del partito a Rubio, in accordo con quanto previsto dalle normativa Usa. In questo scenario Rubio potrebbe avere ancora delle possibilità di arginare Trump, potendo contare su una sorta di “democrazia accorpativa” frutto di un gioco di palazzo, che lo renderebbe rappresentante di tutti gli elettori degli altri sfidanti, pur non avendo materialmente conquistato lui stesso le preferenze elettorali. Questo scenario potrebbe però trovare un ostacolo nell’estremismo conservatore di Cruz il quale, essendo accreditato del voto degli ultra evangelici, e degli integralisti clericali in genere, potrebbe decidere di non cedere i propri delegati. Lo stesso Ted Cruz ha messo in chiaro di “credere nella vittoria fino all’ultimo”. Ciò potrebbe rappresentare un vero problema per l’attuazione del complotto anti – Trump, dato che Cruz rischierebbe di essere un vero e proprio “polverizzatore” di voti necessari al partito per sconfiggere Trump. Tale aspetto risulta evidente già oggi poiché tutti i sondaggi sono concordi nell’affermare che Cruz non solo è più conservatore di Trump, ma che rispetto a quest’ultimo manca di carisma e risulta privo della forte vena populista che ha consentito a Trump di superare a furor di popolo tutte le sfide e gli ostacoli che si sono parati sul cammino fin ora. In caso invece di sconfitta di Rubio in Florida, si sta in queste ore ventilando la possibilità di un candidato di “unità” che potrebbe essere Mitt Romney. Romney, già candidato alle presidenziali del 2012, potrebbe in effetti essere l’uomo giusto su cui puntare in virtù del favore di cui a suo tempo aveva goduto sia presso l’elettorato repubblicano moderato, che verso gli ultra conservatori evangelici ed i mormoni. Se da un lato quindi la sua candidatura consentirebbe di superare il problema “Cruz”, dall’altro lato l’imposizione a tavolino di un candidato che non ha partecipato alle primarie, potrebbe venire percepito dall’elettorato come un abuso decisionista inaccettabile. Pertanto il partito repubblicano potrebbe trovarsi ad un bivio poiché gli sforzi per eliminare lo sgradito Donald Trump, rischiano seriamente di danneggiare l’immagine del partito stesso. Viceversa una vittoria di Trump darebbe maggiore credibilità e solidità al partito, a patto di un certamente traumatico ricambio interno, e della presa di coscienza del mutato posizionamento del partito repubblicano da partito di destra conservatrice, a partito populista laico. Ciò è evidente se si prendono in esame le posizioni di Trump in favore del divorzio e di organizzazioni abortiste, come Planned Parenthood, le quali sono notoriamente a favore anche dell’educazione sessuale, della maternità surrogata e dell’accesso a prestazioni mediche anche in contrasto con la libertà di coscienza. Dal canto suo Trump è ormai chiaramente cosciente che non solo la sua vittoria, ma anche la sua stessa sopravvivenza politica ed imprenditoriale, sono legati ad una strategia forzatamente d’attacco. Pertanto il magnate newyorkese ha confermato la sua linea dura nei confronti dell’immigrazione rilanciando il sogno di frontiere pesantemente militarizzate e della fortificazione al confine con il Messico, senza dimenticare di rilanciare il sogno e egemonico americano con una sfida all’economia globale onde recuperare il terreno perduto dalla superpotenza statunitense negli ultimi anni. Tale immagine di attaccante vincente ha peraltro già dimostrato di riuscire ad attirare i voti degli indecisi e degli astenuti. Indicativo in questo senso il successo raccolto in Nevada dove il magnate newyorkese è riuscito a portare da 4.000 a 40.000 il numero degli elettori repubblicani che hanno partecipato alle primarie. Sia Hillary che Trump dovranno dunque guardarsi tanto dall’avversario dell’opposto schieramento, quanto dai nemici interni ai rispettivi partiti.
Alexandru Rares Cenusa – Agenzia Stampa Italia
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