Il dopo-Asean. Le rivendicazioni cinesi, gli azzardi filippini e le intrusioni americane

(ASI) L'arbitrato avviato unilateralmente dalle Filippine nel 2013 ha surriscaldato ulteriormente gli animi nel Mar Cinese Meridionale, portando le discussioni multilaterali tra gli attori coinvolti ad un livello di nervosismo potenzialmente molto pericoloso.

Le argomentazioni in base a cui il presidente filippino Benigno Aquino rivendica i territori marittimi contesi non vanno al di là della vicinanza geografica tra le Isole Kalayaan, amministrate da Manila, ed il resto dell'Arcipelago delle Isole Nansha (Spratly), sorvolando così le evidenze storiche e gli accordi stabiliti in seno all'ASEAN dalla Dichiarazione sulla Condotta delle Parti nel Mar Cinese Meridionale.
Come se non bastasse, le Filippine fanno gioco sulla protezione politica e militare degli Stati Uniti, un attore estraneo alla regione ma naturalmente interessato a limitare, per quanto gli è possibile, le politiche espansive della Cina secondo la controversa dottrina del coengagement, cioè un mix di contenimento e coinvolgimento, che col Pivot to Asia del duo Obama-Clinton e con le recenti provocazioni militari ha assunto le caratteristiche di un vero e proprio boicottaggio del crescente ruolo navale di Pechino.
Washington ha così intessuto o rinsaldato diverse alleanze nella regione Asia-Pacifico, sfruttando tutte le dispute che vedono coinvolta la Repubblica Popolare. Nel Mar Cinese Meridionale ha cavalcato il clima ostile innescato dalla rivolta anti-cinese in Vietnam del maggio 2014, coinvolgendo Hanoi nella Trans-Pacific Partnership (TPP), dove ha trascinato anche la Malesia e il Brunei, e ha garantito sostegno politico alle iniziative diplomatiche e militari del governo filippino. Nel Mar Cinese Orientale, invece, ha assecondato le intenzioni del primo ministro giapponese Shinzo Abe di modificare il testo costituzionale e di svolgere un ruolo militare più rilevante nella regione Asia-Pacifico, lanciando chiari segnali per quanto riguarda le Isole Diaoyu.

Le principali ostilità anti-cinesi
Filippine: Durante l'ultimo vertice ASEAN di Kuala Lumpur, il 21 novembre scorso, Aquino, come presidente di uno Stato membro, ha dichiarato che "l'Asean non dovrebbe permettere ad alcun Paese, al di là della sua potenza, di reclamare un intero mare come proprio e di ricorrere alla forza o alla minaccia della forza nel portare avanti una simile rivendicazione". Appare scontato il riferimento alla Cina, presente al summit come partner per il dialogo dell'organizzazione assieme ad altri dodici Paesi tra cui Canada, India, Giappone, Russia e Stati Uniti.
La presenza di Barack Obama deve avere esaltato il presidente filippino, che ha indicato l'obiettivo del contenimento della Cina agli altri membri dell'ASEAN, "in quanto comunità basata sulle regole". Ironia della sorte, Aquino è stato il primo a violare le regole stabilite proprio nel quadro dell'ASEAN nel corso degli ultimi venti anni. Il 22 gennaio 2013 il Ministero degli Affari Esteri filippino notificò all'Ambasciata cinese di Manila un reclamo ufficiale e l'inizio di un arbitrato internazionale in base all'Art. 287 e alla VII Appendice della Convenzione ONU sul Diritto Marittimo del 1982. Tuttavia, il ricorso unilaterale alle procedure dell'arbitrato internazionale contrasta palesemente con la Dichiarazione sulla Condotta delle Parti, ratificata tra i membri dell'ASEAN (Filippine comprese) e la Cina il 4 novembre 2002, all'interno della quale la Convenzione ONU, sebbene menzionata tra le 'muse' ispiratrici, veniva subordinata alle "consultazioni amichevoli" e ai "negoziati tra gli Stati sovrani direttamente coinvolti" (Art. 4).
Inoltre, all'Articolo 6 la Dichiarazione specifica che "in attesa di una soluzione duratura e definitiva delle controversie, le parti coinvolte possono esplorare o intraprendere attività di cooperazione", tra le quali sono incluse "la protezione dell'ambiente marino, la ricerca scientifica, la sicurezza della navigazione e delle comunicazioni marittime, le operazioni di ricerca e recupero e la lotta al crimine transnazionale, comprendendo anche le attività contro il narcotraffico, la pirateria o i furti marittimi, ed il traffico illegale di armi". Coinvolgendo gli Stati Uniti, le Filippine hanno introdotto nel quadro diplomatico del Mar Cinese Meridionale un attore estraneo alla Dichiarazione, oltrepassata e violata anche di recente, in occasione dell'ingresso non autorizzato della nave da guerra USS Lassen nello spazio marittimo cinese all'altezza della Barriera di Zhubi.
Giappone: Lo scorso 27 aprile, le massime autorità di Tokyo e Washington hanno apposto la loro firma sulle nuove Linee-Guida per la Cooperazione Difensiva Giappone-USA. Il rigenerato meccanismo difensivo ed il nuovo ruolo del Giappone - definito da Ash Carter "globale, non solo regionale" - eleva il legame tra le Jieitai e lo US Army ad un livello di cooperazione militare più alto e concede al Giappone un più ampio spettro operativo, integrandosi con la recente dottrina nipponica della cosiddetta "difesa pro-attiva". Per quanto riguarda la sicurezza marittima, il testo sottolinea che le attività di cooperazione nippo-americane possono includere "la salvaguardia e il pattugliamento delle linee navali di comunicazione, oltre all'anti-pirateria e al dragaggio di mine; alla non-proliferazione delle armi di distruzione di massa; e all'anti-terrorismo".
All'interno del documento la Cina non viene mai menzionata, eppure tra i casi di "minaccia alla sicurezza giapponese" sulla cui base scatterebbero le nuove modalità di assistenza americana al Giappone, potrebbe rientrare qualsiasi azione cinese tesa a riaffermare la sovranità sulle Isole Diaoyu, che dal 1895 attendono di tornare al loro legittimo proprietario, cioè la Cina. Abe, chiaramente, non vuol saperne e rispedisce le accuse di illegalità internazionale al mittente.
Già alla fine del 2013, la Strategia per la Sicurezza Nazionale pubblicata dal Ministero della Difesa giapponese, obiettava che la Cina stesse "aumentando il suo budget militare senza sufficiente trasparenza" e tentasse di "modificare lo status-quo nei teatri marittimi e aerei della regione attraverso la forza, fondata su tesi arbitrarie [...] e incompatibili con il diritto internazionale vigente". Ovviamente, le tesi cinesi sono tutt'altro che arbitrarie e l'eventuale utilizzo della forza militare non è né più né meno di quello a cui qualsiasi potenza mondiale fa ricorso, compreso il Giappone di Abe.
Stati Uniti: Da quanto visto fin'ora, appare chiaro che la superpotenza americana torni periodicamente ad ostacolare i piani di ricostruzione nazionale della Cina. Resta gravissima la violazione compiuta dalla USS Lassen il 27 ottobre scorso, che ha scatenato le ire cinesi. La Casa Bianca contesta inoltre le costruzioni artificiali nei pressi di alcune scogliere o barriere delle Isole Nansha, affianca e supporta qualsiasi Paese si trovi in una controversia territoriale con la Cina e continua ad esercitare, anche attraverso il sostegno ai partiti di opposizione, una forte pressione sul presidente taiwanese Ma Ying-jeou per evitare che la crescente intesa tra Pechino e Taipei possa dare slancio ad un nuovo "fronte unito" nella comune rivendicazione sui mari contesi.
Fermo restando che, in base al diritto internazionale, esiste una sola Cina e che Taiwan dovrebbe aderire al più presto al programma di ricongiungimento "un Paese, due sistemi", Pechino e Taipei convergono sulla tesi che le isole contese appartengano interamente alla Cina. Per entrambe le leadership, infatti, le Isole Xisha (Paracel) e le Isole Nansha nascono come territori cinesi già nella più antica epoca imperiale, sui quali sia la Repubblica di Cina sia la Repubblica Popolare Cinese hanno continuato ad esercitare anche nel corso del XX secolo una sovranità limitata e parzialmente messa in discussione soltanto dalle incursioni delle potenze coloniali europee (in primis Gran Bretagna, Francia e Olanda), che avevano conquistato l'Indocina e le nazioni insulari della regione, e dalle due guerre mondiali.
Comprensibile, sebbene non condivisibile, che alcune di queste nazioni, ottenuta l'indipendenza dalla rispettiva madrepatria, possa pretestuosamente avanzare pretese sui vecchi territori coloniali. Meno comprensibile che gli Stati Uniti tentino ancora di preservare un obsoleto ruolo paternalistico a circa 12.000 km dalle proprie coste continentali.

La riconquista della sovranità perduta
Nel 1839, la Gran Bretagna scatena la prima guerra dell'oppio in Cina nel duplice tentativo di risollevare le esportazioni attraverso il commercio di droga e di aprirsi nuovi sbocchi commerciali in Asia, colonizzando di fatto la costa cinese. Quella data è ancora marchiata a fuoco nel "calendario politico" della potenza asiatica come l'inizio del secolo delle umiliazioni. Il divario tecnologico tra la Corona di Londra e l'Impero Qing e le difficoltà strutturali interne che la Dinastia cinese stava affrontando in quella fase, furono fattori determinanti per l'affermazione inglese. In appena tre anni la Gran Bretagna si affermò in battaglia ed impose al Celeste Impero condizioni riprovevoli, sancite dalla ratifica del Trattato di Nanchino che, fra le altre cose, stabilì l'apertura di cinque porti inglesi in territorio cinese e la cessione di Hong Kong a Londra.
Da allora sino al 1915, seguirono altri 14 trattati imposti alla Cina dalle potenze occidentali, e successivamente anche dal Giappone, che, per la loro natura predatoria, sono ancora oggi definiti in Cina con l'attributo di "ineguali". Sebbene diversi per peso politico specifico e attori coinvolti, tutti gli accordi prevedevano alienazioni di importanti porzioni territoriali, pesanti concessioni marittime ed umilianti imposizioni commerciali, ma anche frustranti auto-colpevolizzazioni politiche come, ad esempio, le clausole del Protocollo dei Boxer (1901). Per capirci, si trattò di una serie impressionante di condizioni che, giudicate col diritto internazionale odierno, sarebbero state condannate da decine di risoluzioni ONU.
Se il Trattato di Shimonoseki del 1895 alienò alla Cina le Isole Diaoyu, occupate dai giapponesi e rinominate Isole Senkaku, nel Mar Cinese Orientale, nessuno degli altri trattati ineguali ha mai riguardato in modo specifico gli arcipelaghi oggi contesi nel Mar Cinese Meridionale. Infatti, fino al XX secolo, prima che venissero alla luce le abbondanti materie prime presenti sui fondali, le Isole Nansha (Spratly) e le Isole Xisha (Paracel), completamente disabitate, erano soltanto un approdo occasionale per pescatori e navigatori. Tuttavia, in alcuni testi cinesi risalenti al XII secolo si parlava dei due arcipelaghi come di territori sottoposti già a quel tempo alla sovranità di Pechino, ma esplorati ed utilizzati da viaggiatori e pescatori cinesi addirittura sin dai tempi della Dinastia Han, ossia tra il 206 a.C. e il 220 d.C. Sono proprio queste le fonti storiche che la Repubblica Popolare affianca a quelle giuridiche nelle tesi a supporto della sovranità cinese sugli arcipelaghi del Mar Cinese Meridionale.
Con il contributo fondamentale del compianto ammiraglio Liu Huaqing, scomparso nel 2011, la Cina ha elaborato una strategia navale che prevede una graduale ma decisa ristrutturazione dell'imponente ruolo oceanico che, poco dopo la morte di Zheng He nel XV secolo, il Paese improvvisamente abbandonò richiudendosi nella sua tradizionale dimensione continentale. Ancora impegnata in una non facile trama diplomatica che sia capace di bilanciare la crescita esponenziale del Paese con la rassicurazione ai vicini sulle proprie intenzioni pacifiche, la Cina sta affrontando la sua grande sfida del XXI secolo: recuperare i territori perduti e farne i canali di proiezione verso l'Oceano Indiano ad Ovest e l'Oceano Pacifico ad Est.

Andrea Fais -  Agenzia Stampa Italia

 

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