Il crepuscolo del “sogno americano”

(ASI) Sebbene film, serie tv e romanzi destinati al grande pubblico gli permettano di esercitare ancora un certo fascino in Europa, il “sogno americano” tende a rappresentare sempre più un miraggio, specialmente alla luce della critiche condizioni socio-economiche che caratterizzano gli Stati Uniti.

Il Dipartimento dell’Agricoltura rivela che a vivere in condizioni di “insicurezza alimentare”, a causa di mancanza di denaro o di altre risorse, sono circa 50 milioni di statunitensi (tra cui 17 milioni di bambini), di cui ben 18 vivono in condizioni di “bassissima sicurezza alimentare”. Sotto l’amministrazione di George W. Bush, i cittadini statunitensi impossibilitati a sfamarsi in maniera adeguata e costretti a ricorrere ai food stamp (“buoni pasto”) e alle organizzazioni caritatevoli per sfuggire all’indigenza sono saliti rapidamente da 33 a 49 milioni. Durante l’amministrazione Obama è stato sforato il tetto dei 50 milioni, equivalente al 16,4% della popolazione, rispetto al 12,2% del 2001, mentre la povertà infantile è cresciuta dal 18% al 22% (tra i Paesi occidentali, solo la Romania presenta dati peggiori), ma se si prendono in esame soltanto i bambini afroamericani si arriva all’allarmante 38%. Gli Stati Uniti si trovano al primo posto tra i Paesi industrializzati per quantità di omicidi, mortalità infantile, aspettative di vita, gravidanze precoci, malattie mentali, obesità e abbandono scolastico; fattori che scaturiscono indubbiamente dalla progressiva decomposizione sociale indotta dall’aumento della povertà.

  Secondo il rapporto annuale, redatto dalla Cia, sulle disparità sociali[1], calcolate attraverso l’indice Gini, gli Stati Uniti sono il Paese più incisivamente lacerato da disuguaglianze interne, maggiori ri­spetto a quelle riscontrate in Stati come Egitto e Yemen.

 

 

 

  E dal momento che le diseguaglianze istigano giocoforza malcontento e rivolte sociali, non stupisce che le autorità cerchino di mettere a punto forme di controllo sulla società, sugli individui dissidenti e sull’ordine pubblico sempre più rigide, pervasive e stringenti, in particolare dall’11 settembre 2001 in poi. All’interno degli Stati Uniti, il pretesto della lotta al terrorismo è servito per applicare il Patriot Act, un pacchetto di leggi che restringono notevolmente le libertà personali, mentre in tempi più re­centi sono stati predisposti piani che prevedono l’installazione di una serie di campi di raccolta e di strutture destinate alle detenzioni speciali, da mettere in atto nel caso in cui si verifichino massicce rivolte sociali. L’elaborazione di piani simili non mira certo ad intervenire sulle cause che alimentano la rabbia sociale, mitigando l’impatto della crisi sulle fasce sociali più deboli colpite in maniera pe­santissima dalla disoccupazione.

  Il potenziale distruttivo della grande disoccupazione giovanile presente all’interno degli Usa è infatti enorme, poiché i cittadini in giovane età che faticano a trovare un lavoro (anche per via dello scollegamento, molto marcato in alcuni Paesi, tra l’apparato educativo e la realtà economica) tendono ad accontentarsi di salari più bassi e di contratti precari pur di trovare un’occupazione, cosa che li espone costantemente al rischio di rimanere senza lavoro e che, soprattutto, determina il trasferimento della loro condizione di sfavoriti ai discendenti, innescando un circolo vizioso di arretramento costante tale da minare la stabilità del sistema sociale e compromettere qualsiasi prospettiva di rilancio. L’indifferenza delle autorità nei confronti di queste tendenze piuttosto allarmanti, la loro incapacità/mancanza di volontà di agire alla radice dei problemi stride in maniera evidente con la solerzia con cui elaborano soluzioni adatte a gestire le conseguenze del malessere sociale. Negli Stati Uniti, la popolazione carceraria tende ad aumentare regolarmente durante periodi di crisi economica perché oltre oceano la prigione funziona come una sorta di “cassa integrazione” (che ovviamente negli Stati Uniti non esiste). Dai dati pubblicati dall’autorevole “Prison Policy”[2], la percentuale dei cittadini di pelle nera detenuti supera quella vigente nel 1850, quando ancora i neri non godevano dello status di cittadini ma erano soltanto schiavi. I neri e gli ispanici coprono una larga maggioranza degli oltre 6 milioni di statunitensi che si trovano sotto “sorveglianza correzionale” (detenzione o libertà vigilata, o con diritti decurtati per un reato).

  Nel 1980, negli Usa c’erano 220 detenuti ogni 100.000 cittadini; nel 2013, i carcerati sono saliti a 716 (record mondiale). Dall’inizio degli anni ’80, i fondi pubblici per il sistema carcerario sono cresciuti vertiginosamente, svariate volte quelli destinati all’istruzione – specie in un Paese cruciale e comunemente considerato all’avanguardia come la California. Sia l’aumento dei fondi statali al sistema delle prigioni che l’incremento esorbitante dei cittadini finiti in galera sono maturati nel quadro del processo di privatizzazione del comparto detentivo, grazie al quale si è verificata l’ascesa di una sorta di “complesso carcerario-industriale” formato da imprese private che hanno beneficiato degli appalti per il servizio carcerario concessi dallo Stato. Questa lobby è in grado di esercitare una crescente influenza sulle autorità, spingendole a vanificare i numerosi tentativi di depenalizzazione del consumo di marijuana e ad inasprire le leggi anti-immigrazione, perché garantiscono un altissimo numero di detenuti che vengono poi impiegati ai lavori forzati. Le tre più importanti società che forniscono servizi di questo tipo sono  Cca, Geo Group e Cornell, le quali fanno lobby presso il Congresso o i parlamenti locali pretendendo norme più severe. Come ha dettagliatamente documentato Nile Bowie, le imprese carcerarie «hanno contribuito con almeno 3,3 milioni di dollari a favore di partiti, candidati e loro comitati elettorali per influenzare la politica penale a livello federale (…). Più di 7,3 milioni sono stati distribuiti a candidati degli Stati dal 2001 (...). Senatori come Lindsay Graham e John McCain hanno ricevuto somme significative dai gruppi privati di prigionia; Chuck Schumer, presidente della Commissione Polizia di Frontiera e Immigrazione, ha ricevuto 64.000 dollari dai lobbisti (…). In cambio, i politici si sdebitano alla grande: il governo Obama ha stanziato 18 miliardi di dollari per la “repressione dell’immigrazione clandestina”, e di questi parecchi sono destinati alle imprese penitenziarie»[3]. Bowie cita anche uno scandalo scoppiato in Texas nel 2007, in cui sono rimasti coinvolti i controllori pubblici delle carceri minorili inviati nelle installazioni a controllare la qualità del servizio, i quali comparivano tutti sul libro paga della Geo Group. In diverse prigioni che avrebbero dovuto ispezionare, i detenuti minorili dovevano defecare in secchi di plastica per mancanza di bagni, l’alimentazione era tremenda, ai prigionieri erano negate sia le cure mediche che il contatto con gli avvocati e il 4-5% dei detenuti ha denunciato di esser stato vittima di aggressioni a scopo sessuale. Ma l’influenza del “complesso carcerario-industriale” si era già manifestata in passato; quando l’amministrazione Clinton introdusse la legge che prevede l’applicazione della massima pena dopo tre recidive, il “complesso carcerario-industriale” ha potuto disporre di intere schiere di individui responsabili di marginali reati di sopravvivenza da reclutare nella propria forza lavoro non (o scarsamente, nel migliore dei casi) retribuita. Una volta tornati in libertà, questi disperati non godono di diversi diritti civici, non hanno accesso ai servizi sociali e fanno maggiormente fatica ad introdursi nel mercato del lavoro, cosa che li induce a commettere altri reati, con grande soddisfazione di suddetto complesso.

L’aumento delle disuguaglianze emerge anche dal fatto che nel 2010, per la prima volta, le morti per suicidio hanno superato quelle per incidenti stradali (38.364 contro 33.687) e coinvolgono per buona parte cittadini facenti parte della classe lavoratrice, cioè coloro che hanno subito l’impatto maggiore della crisi del 2007-2008. Questa fascia sociale è effettivamente composta da persone che hanno subito licenziamenti, visto crollare il valore della propria casa sulla cui rivalutazione si basavano le speranze in un futuro migliore, assistito all’affossamento del fondo pensionistico investito in azioni crollate, dovuto fare i conti con il peso soverchiante assunto dal mutuo per casa e per gli studi universitari, divenuti insostenibili con un salario declinante. Oltre 4 milioni di cittadini appartenenti a questa classe hanno subito pignoramenti e confische per insolvenza mentre l’1% della categoria che riunisce i più abbienti si arricchiva accaparrandosi i profitti generati dal quantiative easing della Fed. Queste condizioni sono alla base delle proteste che, da Ferguson a Baltimora, hanno scosso da cima a fondo gli Stati Uniti. Come scrive lucidamente il sociologo Tito Pulsinelli: «il 2015 registra l’invariabilità della patologia strutturale che affligge la società Usa, aggravata dalla de-industrializzazione che ha reso “marginali” intere città. La crisi economica estremizzata, combinata a un’esclusione etnica di fondo, rende evanescente ogni “narrativa” istituzionale. Soprattutto quella dell’integrazionismo, e ripropone in modo implosivo la virulenza di una società basata sulla stratificazione etnica gerarchizzata. Sia in alto che in basso. I soliti noti, continuano a stare esattamente negli spazi che – come comunità – sono loro riservati. Le eccezioni individuali confermano la regola dell’ipocrisia liberal. Più che l’inconsistenza e l’impostura del melting pot, è un dubbio dilagante a corrodere la coesione sociale e le radici ideologiche del sogno americano. Vacilla il mito che chiunque, basta che lo voglia, può diventare ricco. Ciò spinge alla protesta di strada gli esclusi di sempre e le nuove reclute dei senza reddito e consumi (...). Sul fronte interno Washington si prepara al peggio, e alla levità delle residuali garanzie giuridiche individuali sopravvissute all'11 di settembre, si appresta alla fase del controllo militarizzato del territorio. Il varo estivo di prolungate e articolate esercitazioni militari in ben otto Stati (“Jade Helm 15”), classificati come problematici o insufficientemente immuni all’eccessivo federalismo o separatismo, prelude al dispiegamento permanente delle truppe per garantire gli standard di governabilità nei tempi della carestia. Il governatore repubblicano del Texas G. Abbot ha lanciato il grido d’allarme. ordinando alla Guardia Nazionale di vigilare le sorprendenti manovre del Pentagono»[4].

 

Giacomo Gabellini

 



[1] Central Intelligence Agency, The world factbook 2013: distribution of family income-Gini index.

[2] “Prison Policy”, State of incarceration: the global context.

[3] Nile Bowie, Moral monstruosity: America’s for-profit gulag system, “Russia Today”, 23 aprile 2013

[4] Tito Pulsinelli, Invariabilità della segregazione e della ribellione, “Selvas”, 8 maggio 2015.

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