(ASI) Mercoledì scorso un gruppo di circa cinquanta manifestanti della rete "Free Tibet" ha attaccato il Consolato della Repubblica Popolare Cinese di Sydney, in Australia.
Alcuni dimostranti hanno oltrepassato il cancello, violando lo spazio diplomatico, e si sono arrampicati lungo l'asta metallica eretta al centro del piazzale per strappare la bandiera nazionale cinese. La reazione del governo di Pechino non si è fatta attendere. Ha immediatamente condannato il gesto attraverso un portavoce dell'Ambasciata cinese in Australia, che ha definito l'assalto "un attacco molto grave alle istituzioni diplomatiche e consolari", evidenziando "la natura violenta dei 'separatisti tibetani'". La rappresentanza diplomatica ha inoltre esortato il governo australiano a prendere i necessari provvedimenti in merito all'accaduto e garantire l'incolumità, la sicurezza e la dignità del personale e delle istituzioni cinesi, in ottemperanza al diritto internazionale vigente.
I manifestanti si erano dati appuntamento davanti al Consolato per ricordare il monaco Tenzin Delek Rinpoche, morto lo scorso 12 luglio in una cella del carcere di Cheng'du, nella provincia del Sichuan, dov'era stato rinchiuso nel 2002 assieme al suo assistente Lobsang Dhondup, giustiziato pochi mesi dopo, a seguito di una condanna per l'attentato terroristico del 3 aprile 2002, quando un ordigno esplose nella piazza centrale di Cheng'du. Nel 2005, la condanna a morte di Tenzin Delek era stata commutata in ergastolo, anche sotto la pressione esercitata da Amnesty International e da altre organizzazioni per i diritti umani. Tuttavia, le indagini non hanno mai smentito il coinvolgimento del monaco nell'attentato e le richieste di scarcerazione erano logicamente state negate dalle autorità cinesi.
L'ennesimo monito cinese a non interferire
Ancora una volta la Cina è stata costretta ad intervenire pubblicamente per esortare qualsiasi organizzazione straniera a non interferire nei propri affari interni. La reazione dei media cinesi, ed in particolare del Global Times, tabloid internazionale "derivato" dal Quotidiano del Popolo, non ha lasciato spazio ad interpretazioni. L'opinione pubblica cinese è sostanzialmente concorde nel pretendere che l'Australia eviti ogni ambiguità sul tema e che punisca severamente gli autori del gesto, condannando le loro attività.
Il governo di Canberra è sembrato più che disponibile a collaborare. Del resto, il primo ministro australiano Tony Abbott non può mostrarsi equivoco dopo la definitiva ratifica dell'area di libero scambio sino-australiana che, a detta dello stesso premier anglofono, "segna una nuova era nelle relazioni tra i due Paesi" e "renderà il commercio e gli investimenti bilaterali più liberi". Eppure, c'è evidentemente ancora molto da lavorare sul piano politico e culturale non solo per cambiare la percezione distorta di quegli australiani che vedono ancora la Cina come una potenziale minaccia, ma anche per evitare certi inconvenienti diplomatici che Pechino considera alla stregua di basse provocazioni politiche.
L'assalto al Consolato di Sydney è infatti arrivato ad appena due settimane di distanza da quello al Consolato thailandese di Istanbul, diretto in realtà non tanto contro Bangkok quanto contro Pechino, in segno di protesta per l'arresto di diverse decine di sospetti terroristi uiguri poi rimpatriati in Cina per essere giudicati dalle autorità inquirenti in merito alla loro possibile affiliazione alla rete separatista attiva nella regione autonoma dello Xinjiang, a maggioranza relativa musulmana.
L'improvvisa riattivazione dei due separatismi più problematici per il governo di Pechino ha suscitato più di un sospetto, rilanciando l'ipotesi che dietro i disordini possano essere facilmente rintracciate connessioni, per altro in passato già esistenti alla luce del sole, tra le diaspore tibetana e uigura e alcune organizzazioni non-governative statunitensi ed europee. E' improbabile che tibetani e uiguri possano aver raggiunto un accordo, anche solo tatticamente, stante l'incompatibilità e l'ostilità reciproca sul piano religioso tra buddhisti e islamici in Asia, come anche gli scontri nel Myanmar hanno messo in evidenza lo scorso anno. Tuttavia, la vicinanza temporale tra i due episodi rafforza l'ipotesi che un'unica regia straniera possa aver avuto interesse a smuovere le acque all'estero per innervosire e distrarre la Cina in una fase molto delicata sul piano finanziario, con le piazze di Shanghai e Shenzhen ancora in difficoltà dopo il crollo, momentaneamente tamponato, del giugno scorso, sul quale sono ancora in corso indagini ed accertamenti da parte delle autorità.
Il Tibet progredisce nella coesistenza
Il Tibet (in cinese, "Xizang") è una delle cinque regioni autonome della Repubblica Popolare Cinese, ossia quelle divisioni territoriali che, per storia, cultura e conformazione etnografica, godono di un particolare status giuridico finalizzato primariamente alla tutela delle specificità e delle differenze che ne contraddistinguono le caratteristiche salienti rispetto alla Cina interna, dove l'etnia Han (pari al 92% della popolazione nazionale) è numericamente dominante.
Nonostante diversi attivisti occidentali o della diaspora continuino ad affermare che nel Tibet sarebbe in corso una colonizzazione interna o addirittura un genocidio etnico e culturale, secondo i dati dell'ultimo censimento del 2010, la popolazione del Tibet (pari a 3,12 milioni di abitanti circa), quasi triplicata rispetto al dato del 1951 e raddoppiata dal 1970, è composta per il 90,48% da tibetani etnici, per l'8,17% da cinesi Han e per l'1,35% da altre minoranze.
Stando al dettato dell'articolo 36 della Costituzione della Repubblica Popolare Cinese, ogni cittadino gode della libertà di culto, né promossa né sconsigliata dallo Stato, che resta estraneo alle questioni religiose almeno fin quando queste non assumano un carattere illegale. Le statistiche ci dicono che oggi sono attivi in Tibet 46.000 tra monaci e monache di rito buddhista tibetano, pari all'1,7% della popolazione regionale, che hanno la possibilità di officiare le principali funzioni cultuali all'interno dei monasteri o nei luoghi naturali ritenuti sacri.
Anche sul piano istituzionale, la rappresentanza elettorale, introdotta per la prima volta nella storia della regione nel 1961, vede oggi tutti i principali organi legislativi e amministrativi del Tibet ai livelli regionale, provinciale, comprensoriale e cittadino comporsi per quasi il 78% da tibetani etnici. Dei 34.244 deputati eletti direttamente o indirettamente nei vari consessi della regione, ben 31.901, cioè più del 93%, appartengono al gruppo etnico tibetano o ad altre minoranze (Moinba, Lhoba, Naxi, Hui, Zhuang ecc. ...), mentre meno del 7% è di etnia cinese Han.
La liberazione dal sistema della schiavitù imposto durante la teocrazia lamaista e l'emancipazione sociale e politica hanno sprigionato nel corso dei decenni la brillantezza e la creatività produttive della popolazione tibetana, che si è col tempo dimostrata capace di coniugare conoscenze e metodi tradizionali antichissimi alla modernizzazione tecnica e industriale. Tra il 1951 e il 2013, il PIL della regione tibetana è cresciuto di oltre 626 volte, passando da 129 milioni a quasi 81 miliardi di yuan (poco meno di 12 miliardi di euro). Tra il 2009 e il 2013, il tasso di crescita dell'economia regionale si è mantenuto sul valore medio del 12,3%, con un consequenziale incremento nel reddito pro-capite, nel potere d'acquisto e nella vendita al dettaglio dei beni di consumo (+15,1% dal 2012 al 2013).
Si tratta di un risultato straordinario, persino superiore ai valori medi del resto del Paese, raggiunto soprattutto grazie agli enormi investimenti operati dal governo cinese in Tibet, che solo negli ultimi quattro anni ha pianificato 226 grandi progetti nei settori collegati al miglioramento del benessere sociale, nel settore infrastrutturale, in quello industriale con caratteristiche locali e in quello ambientale, per un investimento totale pari a 193,1 miliardi di yuan (circa 28,3 miliardi di euro).
Il Tibet come parte inalienabile della Cina
Come per Taiwan (tutt'ora de facto "indipendente" sebbene illegalmente), anche per il Tibet il governo cinese ritiene la regione parte inalienabile del territorio nazionale. La storia dei rapporti tra la Cina e la regione del Tibet è densa di episodi controversi e contrastanti dai quali, tuttavia, emergono due dati oggettivi: il buddhismo è una religione acquisita e non originaria del popolo tibetano, anticamente fedele allo sciamanesimo Bön; la storia della Cina interna e quella del Tibet si sono ripetutamente intrecciate sin dai tempi della Dinastia T'ang (618-907 d.C.), durante la quale spicca il trattato di pace dell'821-822, in un rapporto di mutua assistenza interrotto soltanto dalle invasioni mongole da Nord e, sei secoli più tardi, dalle interferenze britanniche da Sud.
Al di là delle diverse interpretazioni storiche, è evidente che il "Tibet libero" rivendicato dalle sigle separatiste (il "Grande Tibet") sia ormai solo il frutto di fantasie ipernazionalistiche o di operazioni hollywoodiane che non tengono conto delle mutate condizioni geografiche, politiche e sociali dell'area, al pari di molte altre territorialità fantascientifiche come la "Grande Albania" o il "Grande Turkestan", finite tristemente nei libri di storia per la strumentalizzazione che ne operarono potenze straniere del tutto estranee a quelle latitudini, esclusivamente interessate alla spartizione di importanti territori o alla balcanizzazione del Paese avversario.
Sul più recente piano dei diritti umani, invece, ogni polemica appare infondata nella misura in cui le nuove infrastrutture e i nuovi grandi collegamenti consentono annualmente un enorme flusso turistico, preziosissimo per le casse dell'economia locale, di fronte al quale sarebbe impossibile nascondere esecuzioni di massa, repressioni violente e tutti gli altri supposti crimini di cui il governo cinese è continuamente accusato dalla rete "Free Tibet".
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia