In Siria, negli ultimi due anni sono stati catturati o uccisi in scontri a fuoco migliaia di mercenari provenienti da tutto il mondo musulmano: dalla Libia all’Egitto, dall’Arabia Saudita al Bahrein, dalla Cecenia al Dagestan, dal Kosovo allo Xinjiang. Nonostante i ripetuti allarmi lanciati da diversi osservatori internazionali e l’evidenza delle prove portate a sostegno della tesi in merito alla presenza di folte formazioni estremiste tra le file del cosiddetto Free Syrian Army, il segretario della NATO Anders Rasmussen e la portavoce della European Defense Agency Catherine Ashton hanno continuato a mettere sotto accusa il presidente Bashar al-Assad per i crimini che avrebbe commesso contro la popolazione siriana, analogamente a quanto contestato a Muammar Gheddafi nel 2011.
In un articolo uscito su “L’Espresso” il 4 ottobre 2012, Paolo Biondani parlava di una serie di pericolosi terroristi individuati come jihadisti legati ad al-Qaeda che, arrestati in Italia prima del 2011, oggi si troverebbero in Tunisia, in Libia e in Algeria, in condizioni di piena libertà. Come loro, molti altri hanno beneficiato delle amnistie o hanno semplicemente approfittato del caos ingenerato dalle sommosse per fuggire dalle carceri ed unirsi agli altri guerriglieri, già da tempo in contatto con agenti dei servizi segreti di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Olanda e altri Paesi occidentali. In un articolo del 31 agosto 2011 titolato emblematicamente Obama intensifica la presenza della Cia in Libia, Il Foglio di Giuliano Ferrara arrivava a sostenere: “In conformità alla dottrina della guerra liberal propugnata da Barack Obama – bilanciare il ‘leading from behind’ pubblico con massicce dosi di forze speciali, droni, incursioni, contractor e intelligence militarizzata – l’Amministrazione ha dato disposizione ai team della Cia sul suolo libico di stringere ulteriormente i legami con i ribelli per evitare che la fuga di Gheddafi verso sud dilati ulteriormente i tempi del conflitto”.
Del resto, durante l’aprile del 2011 fu la CNN a diramare la notizia in base alla quale l’agente CIA Khalifa Haftar (detto anche Hifter o Hafter), ex generale di Gheddafi fuggito negli Stati Uniti alla fine degli anni Ottanta, aveva ricevuto l’incarico dall’intelligence nordamericana di prendere in mano la guida dei ribelli per sconfiggere il Colonnello.
Secondo quanto riportato dall’Associated Press in un suo articolo del 16 febbraio 2012 intitolato U.S. ties al-Qaeda to Syrian bombings, il direttore dell’intelligence degli Stati Uniti, James Clapper, aveva chiaramente affermato che tutti gli elementi riscontrati in occasione degli attentati a Damasco e ad Aleppo lasciavano presagire la presenza di al-Qaeda, rafforzando l’ipotesi in base alla quale il ramo iracheno dell’organizzazione, uno dei più pericolosi in tutta la regione mediorientale, si sarebbe velocemente introdotto in territorio siriano proprio grazie al clima di destabilizzazione scatenato nel Paese arabo. In effetti, era stato lo stesso nuovo capo di al-Qaeda, l’egiziano Ayman al-Zawahiri (per anni vicario dello sceicco Osama bin Laden), ad aver chiamato alle armi tutti i musulmani per fornire il loro sostegno ai ribelli siriani.
Quello che è avvenuto nei giorni scorsi in Algeria e che sta tutt’ora avvenendo in Mali ricorda molto da vicino il crescendo di provocazioni e attentati concentrato tra il 1993 e il 1999. Anche allora, in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e al caos generato nei Balcani dal disfacimento della Jugoslavia, il terrorismo wahabita poté trovare nuovi canali di comunicazione e interconnessione tra l’Afghanistan, l’Azerbaigian, l’Egitto e la Bosnia sfruttando il sostegno della CIA e dell’MI-6 oltre alle interferenze della Turchia, interessata a mettere le mani sull’Asia Centrale postsovietica e sui Balcani. Elemento centrale di questa chiarissima connessione strategica è il Kosovo, regione al centro di mille accuse internazionali e di durissimi scontri, dichiaratasi indipendente dalla Serbia nel 2008 ma tutt’ora non riconosciuta dalle Nazioni Unite. In un’intervista pubblicata all’interno del numero di dicembre del 2012 della rivista serba “Geopolitika”, l’autore francese Thierry Meyssan sostiene senza alcun dubbio che un cospicuo numero di terroristi attivi in Siria sotto le insegne del cosiddetto Free Syrian Army sarebbe stato addestrato proprio in Kosovo dalle milizie dell’UCK, sotto gli occhi dei soldati della NATO simultaneamente impegnati in quello scenario nel quadro della missione KFOR che – va ricordato – comprende tra gli altri corpose truppe di Stati Uniti, Germania, Francia, Italia e Turchia, oltre alla presenza di Camp Bondsteel, la più grande base militare statunitense nei Balcani.
È perciò molto importante capire cosa stia avvenendo nel Continente Africano e quali siano le responsabilità in campo quando si parla di terrorismo internazionale. Secondo l’esperto di sicurezza internazionale Andrew Lebovich, il leader della fazione maghrebina di al-Qaeda (AQIM, al-Qaeda in Islamic Maghreb), Mokhtar Belmokhtar, andrebbe a costituire una figura solo relativamente nuova nel quadro del complicato mosaico della rete estremista fondata negli anni Ottanta da Osama bin Laden. Nel 1993, all’età di soli diciassette anni, Belmokhtar avrebbe accumulato una prima esperienza di guerriglia proprio nel caotico e drammatico scenario dell’Afghanistan postcomunista. In un articolo del 22 marzo 2012 firmato dallo stesso Andrew Lebovich e da Aron Zelin, pubblicato dal Combating Terrorism Center, viene esplicitamente precisato che nel novembre precedente (del 2011, nda), il comandante dell’AQIM Mokhtar Belmokhtar aveva confessato pubblicamente tutti i benefici conseguiti dal suo gruppo durante la rivolta in Libia, sfruttando il disordine generato dalla guerra civile per procurarsi armamenti.
La forza politica ed economica recentemente acquisita dalle monarchie del Golfo – legate ad al-Qaeda dalla comune fedeltà religiosa alla dottrina eterodossa islamica del Wahhabi – deve dunque preoccupare moltissimo, soprattutto perché gli imponenti investimenti delle famiglie reali dell’Arabia Saudita, del Qatar, del Bahrein e degli Emirati Arabi Uniti nello scenario nordafricano sconvolto dalla “primavera araba” rischiano seriamente di porre le basi per un primo e sconvolgente espansionismo di questi pericolosi governi lungo il versante centrosettentrionale dell’Africa e il versante centromeridionale dell’Asia. I buoni rapporti che intercorrono tra questi Paesi e le tre principali potenze della NATO (Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia) consistono in cooperazioni militari e scambi commerciali, soprattutto in relazione al mercato petrolifero. La Francia per esempio dispone tutt’ora di una base ad Abu Dhabi, dalla quale si stanno alzando in volo alcuni dei numerosi cacciabombardieri pronti a raggiungere la regione settentrionale del Mali per neutralizzare il terrorismo riesploso nella sua ex colonia. Le ambiguità, insomma, procedono senza sosta e i criteri di valutazione dei fenomeni legati al terrorismo transnazionale restano poco chiari, densi di opportunismo e senz’altro distorti. Solo una cosa sembra restare estranea a qualunque dubbio: la vincente presenza cinese in Africa comincia a dare molto fastidio ai Paesi occidentali.
Andrea Fais
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