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Calo demografico. Politica del figlio unico addio, persino la Cina vuole più figli

(ASI) Il diciottesimo congresso del Partito Comunista cinese, il quale sta avvenendo in questa settimana, sancirà il passaggio di poteri dall’attuale presidente Hu Jintao al successore designato Xi Jimping. Quest’ultimo assumerà dapprima la carica di presidente del partito e, in marzo, anche quella di presidente della Repubblica Popolare Cinese.

Poche e generiche le notizie che trapelano sul prossimo timoniere del colosso asiatico. Questo silenzio tipicamente estremorientale lascia in sospeso previsioni specifiche sul futuro della Cina. Dunque, per avere qualche elemento utile a capire le intenzioni della nomenclatura comunista cinese, bisogna accontentarsi delle formali e stringate parole pronunciate da Hu Jintao durante l’apertura del congresso. Il presidente ha in primo luogo sgombrato il campo da ipotesi azzardate: “Non copieremo mai i sistemi politici occidentali”. Una frase forse di circostanza, accompagnata però da quella punta d’orgoglio che contraddistingue chi è determinato a perseguire degli scopi, fiero delle proprie peculiarità.

Una notizia recente testimonia che la Cina si sta dimostrando alquanto peculiare, appunto, anche nell’individuazione di rimedi alla crisi economica. Sorprendentemente, persino a Pechino si sono accorti che la denatalità incide negativamente sulla ricchezza. La China Development Research Foundation, uno dei più influenti istituti di ricerca della Repubblica popolare, ha realizzato uno studio i cui risultati potrebbero spingere la dirigenza politica cinese a ripensare la discussa politica del figlio unico. L’istituto di ricerca - stando alle indiscrezioni pubblicate dal quotidiano cinese Xinhua - avrebbe raccomandato la sperimentazione della “politica dei due figli” sin da quest’anno, arrivando a individuare nell’anno 2020 la data adatta per archiviare definitivamente il “controllo delle nascite”.

Già l’anno scorso alcuni studi americani giungevano alle medesime conclusioni di cui oggi sembrano essersi convinti gli stessi cinesi. In sostanza, se la Cina proseguisse imperterrita la politica del figlio unico, la situazione demografica precipiterebbe. Soprattutto in considerazione dell’incremento del benessere e delle aspettative di vita, si calcola che il mantenimento di questa politica porterebbe il Paese, nel 2050, ad avere due terzi di popolazione anziana. La conseguenza sarebbe disastrosa, con una sproporzione tra lavoratori e l’altissimo numero di pensionati che porterebbe a un inevitabile collasso il già deficitario sistema pensionistico.

Dopo più di trent’anni di vita la politica del figlio unico (basata, per giunta, sulle catastrofiche e scriteriate previsioni del Club di Roma circa un “olocausto ambientale” entro il 2000) è così destinata ad essere soppressa. Almeno in questo, la Cina dimostra di distinguersi dall’Occidente dei cui sistemi politici Hu Jintao ha detto di voler diffidare. In Italia, per esempio, i politici sembrano essere totalmente ignari del pericolo rappresentato dalle culle vuote. È raro, infatti, che si levi mai una parola a favore dell’aumento demografico quale antidoto alla crisi. Eppure, il nostro Paese è uno di quelli con gli indici di natalità più bassi. Basti pensare che in Italia nascono meno bambini di quanti percentualmente ne nascono nella Cina del figlio unico: qui 9 nascite ogni 1000 abitanti, là 12.

Qualunque economista di buon senso prescriverebbe a quest’Italia malata di crescita zero una panacea senz’altro efficace: fare più figli. L’americano Tyler Cowen, tanto per citarne uno, non ha alcun dubbio: “Se l’Italia facesse più figli, le sue prospettive economiche sarebbero migliori. Invece un Paese con una popolazione in declino alla fine non potrà ripagare i suoi debiti”. Tuttavia, la componente progressista del nostro Parlamento (destinata a diventare, dopo le prossime elezioni, maggioritaria), continua ad essere, oltre che sorda a questi autorevoli richiami, distratta da ben altre preoccupazioni. Per esempio, dal soddisfacimento di alcune pretese egoistiche di una sparuta categoria di cittadini, quella omosessuale. La quale, per bocca dei suoi esponenti istituzionali, reclama a gran voce di voler regolamentare il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Una battaglia di nicchia, foraggiata da lobby influenti nell’ambito mediatico, pertanto lontana dalle reali istanze della società civile. Del resto, lo sviluppo dell’economia e della società prescinde da programmi di sviluppo non di tipo utilitaristico, ma che mettano al centro l’apertura alla vita. La Cina comunista sembra averlo capito, l’Italia democratica non ancora.

Federico Cenci – Agenzia Stampa Italia

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