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Nella Birmania delle «riforme democratiche» c’è il massacro silenzioso dei musulmani Rohingya

(ASI) «I fatti di cronaca che arrivano dallo Stato dell’Arakan mostrano davvero quanto sia fragile il processo di cambiamento in Birmania. Questo non è un dramma esploso per caso. Vi sono diversi segnali che indicano che dietro a questa drammatica vicenda - gli scontri e le persecuzioni - vi siano dei gruppi filogovernativi e vicini ai militari, assieme a movimenti estremisti interni». A parlare è Aye Chan Naing, direttore del sito dissidente Democratic Voice of Burma, in una recente intervista rilasciata ad Asia News.

 


L’ondata di violenza.
La nuova ondata di violenza contro i musulmani Rohingya è iniziata il ventotto maggio a Maungdaw, in Birmania, al confine con il Bangladesh, dopo lo stupro e l’uccisione di una donna locale di religione buddista. Il tre giugno scorso, a Toungup, diverse centinaia di persone hanno attaccato un autobus di musulmani diretto a Yangon: il bilancio dell’attacco è stato di undici morti. La violenza ha chiamato altra violenza e, il dieci giugno, gli scontri tra le due comunità sono aumentati. I sopravvissuti alle violenze raccontano di migliaia di abitazioni musulmane distrutte, di stupri sistematici su donne e bambini e di molte persone costrette a fuggire.

I Rohingya, il popolo che nessuno vuole. La popolazione Rohingya, è costituita da 800 mila persone in Birmania ma non è riconosciuta tra le etnie del Paese. Dal 1962, con la giunta militare al potere, hanno perso anche il diritto alla cittadinanza. I Rohingya vengono considerati dalla Birmania come degli immigrati irregolari tanto che, il presidente Thein Sein, ha chiesto l’intervento dell’agenzia dei rifugiati per il loro spostamento in altri Paesi. Anche il Bangladesh, che ospita diverse centinaia di migliaia di rifugiati, non vuole aiutarli e ha ordinato alle organizzazioni umanitarie Medici Senza Frontiere, Action Against Hunger e Muslim Aid Uk di cessare il proprio aiuto ai rifugiati Rohingya che attraversano il confine per sfuggire alle violenze etniche e religiose. «I Rohingya – scrive Marco Del Corona sul Corriere della Sera - sono un popolo senza due patrie. Cittadini del nulla, presi in un atroce gioco di rimbalzi fra due Paesi che non li vogliono, la Birmania e il Bangladesh».

Il rapporto di Human Rights Now. In un rapporto presentato da Human Rights Now si legge che le forze di sicurezza birmane avrebbero fatto ben poco per arginare la violenza. «Le forze di sicurezza birmane – ha detto il responsabile asiatico di Hrw, Brad Adams - non sono riuscite a proteggere le popolazioni Rohingya e Rakhine l’una dall’altra, e poi hanno lanciato una campagna di violenza e arresti di massa contro i Rohingya. Il governo del Paese afferma di essere impegnato nel porre fine agli abusi e alle violenze etniche ma, i recenti accadimenti nello stato Arakan, dimostrano che la persecuzione, sponsorizzata dallo Stato, persiste. Tutto questo è accecato da un racconto romantico di cambiamento improvviso della comunità internazionale».

La solidarietà iraniana. Ramin Mehmanparast, portavoce del Ministero degli Esteri iraniano ha recentemente affermato che la Repubblica Islamica invierà aiuti umanitari alla comunità dei musulmani Rohingya, «vittima di una vera e propria persecuzione nel paese asiatico del Myanmar».

Fabio Polese - Agenzia Stampa Italia

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