(ASI) Indubbiamente, questo è stato uno scherzo non indifferente che la vita ci ha causato, costringendoci a fare l’esatto opposto di quello sulla quale stiamo fondando la nostra società.
Siamo continuamente bombardati da pubblicità che hanno lo scopo di stimolare il buon senso, di farci capire di dover rimanere in casa, per noi e per gli altri, di ricordarci che c’è chi per noi sta combattendo a discapito dell’amor proprio; mentre dall’altra parte, come un ronzio, il perenne grido strozzato di un popolo soffocato, che, come una mosca nel bozzolo di un ragno, anela alla disperata presunzione di saper ancora farsi sentire, pur sapendo quanto ciò sia inutile.
Siamo stati fregati, e per un infausto concatenarsi di eventi, ci siamo ritrovati in questo labirinto, dalla quale non sappiamo scappare.
Il punto è che c’è chi sta cercando per noi, perciò non dovremmo far altro che sederci e aspettare. Aspettare: ormai questa è una parola dal significato mutato a causa degli anni correnti, dove vige la cultura del tutto e subito, almeno per i fenomeni di massa.
Dovremmo aspettare senza essere d’intralcio, smettere di essere protagonisti di una storia che già ci è stata strappata via, accendere la tv ed in quelle immagini veloci vederci il nostro tempo che, svelto, si dilegua, pur tenendoci fermi.
Non siamo eroi, siamo solo vittima di una circostanza più grande di noi, che è riuscita a ridimensionare il nostro ego sotto il peso della morte, ed a noi è solo richiesto buon senso.
Si sentono spesso due fazioni, una a sfogare ed una ad incoraggiare, nell’imperterrito lamento della reclusione e l’evidente differenza tra la costrizione ad un divano e quella ad un fucile; personalmente credo però, che non sempre il primo caso sia positivo, specialmente per chi in guerra ci sta entrando davvero, con il nemico più brutale ed invincibile: sè stesso.
C’è chi ogni mattina apre gli occhi più stanco di quando li ha chiusi, imbraccia l’arma di un caffè e parte nella battaglia di una giornata silenziosa, dove l’impossibilità di scappare pervade ogni angolo della casa rendendolo angusto.
C’è chi assapora ogni giornata come fiele, anestetizzando i dolori dell’interazione col mondo esterno, rinchiudendosi in prigioni di gran lunga più inespugnabili di quattro mura e, minacciando di non uscire più, torna a giocare con i fili di pensieri che gli si raggomitolano in testa come una folta chioma. C’è chi finalmente ha capito la sua piccolezza e chi sta prendendo tutto questo come un insulto personale al suo potere, e c’è chi, come me, sta da tutt’altra parte, col naso perennemente all’insù come mio solito, e devo dire che dall’alto nonostante tutto osservarci non è male.
Tralasciando le vittime, trovo che le persone stiano dando sfogo a chi siano realmente, almeno nei limiti imposti da una porta. Ho sempre osservato tanto e tutto, in modo ossessivo, ricordando ogni minimo dettaglio di questa realtà che percepisco come un quadro, da lontano e di mutevole interpretazione.
Ho osservato le gesta dei suoi bizzarri personaggi ed immaginato i loro profumi, tessendo la mia identità a mio piacimento, essendo parte non di quest’opera, ma probabilmente di un colore ancora rimasto sulla tavolozza, grezzo, capace di creare ancora qualcosa di diverso, ma che nel frattempo osservava quel turbinio di voci e colori che un’opera può avere.
Credo realmente che chi non è stato in grado di relazionarsi con sè stesso, purtroppo o per sfortuna, ora se la stia passando in modo piuttosto pesante, costretto ad accettare un futuro che lo vede ufo, ma chi ha fondato la sua identità anche sulla sua reale essenza, possa in parte giovare di questo tempo infame, che nonostante non sia piacevole per nessuno, potrebbe essere maestro perfetto di noi studenti sordi, che spesso non capiamo neppure le nostre stesse lezioni.
Mi piacciono molto le foto fatte in questo periodo, dove tutto è soggetto, dove la mascherina è al posto della maschera di tutti i giorni, dove la realtà è più statica dell’istantanea, dove a ridere, ove possibile, invece che la traditrice bocca, sono gli occhi.
Città fantasma abitate finalmente da corpi concreti, mani che si cercano senza mai toccarsi, occhi che si fondono in uno sguardo e cambiano mille sfumature, pianti inconsolabili di chi quello sguardo lo ha perso, di chi lo cerca avidamente e lo trova nella luce di uno schermo, occhi stanchi di chi ne ha viste troppe, occhi che si aprono per la prima volta, di una vita che ce la fa, evidenziando la nostra piccolezza.
Al di là delle considerazioni personali, però, l’identità è indubbiamente mutata, sia quella individuale che quella di massa, stringendosi e respingendosi sempre più, accettandosi e ripudiandosi.
Questo, come detto e ridetto, dà la possibilità anche a noi di assaporare il tutto come un bambino fa con le novità, stanchi e annoiati perchè incapaci di comprendere, come ci detta la nostra stessa natura.
Ha bloccato la nostra parossistica ricerca di un qualcosa alla quale affidarci lasciandoci soli con noi stessi a prenderci cura del nostro modo di essere, facendoci esistere come individui e non più come ombre.
Si può notare che in molti casi anche i social sono mutati, sono presenti molti meno selfie, sostituiti da foto antecedenti a questa situazione, dove una foto come mille ora è ciò che desideriamo fare, per immortalare nuovamente la vita non finita, ma radicalmente cambiata.
La tanto desiderata identità nazionale si è vista più compatta, il mondo ha finalmente un’essenza che va al di là di quella obbligata dal limite di luoghi e, anche se le cose cambieranno e torneranno ad assestarsi, questa ferita rimarrà, magari come una crepa in un muro, dalla quale col tempo fuoriusciranno dei fiori. Era l'analisi dell'identità ai tempi del coronavirus
Chiaramaria Febbraro 
 
 
 
 

 

 

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