Marchio nazionale? De Bonis (Fima): partire dall’ etica e poi dall’origine
(ASI) Lettera in redazione - Valorizzare la nostra agricoltura, non significa andare in ordine sparso sui mercati internazionali senza un progetto paese che abbia una strategia di brand e di tutela a livello internazionale. E’ vero, su questo non ci sono dubbi, dichiara Saverio De Bonis, coordinatore della Fima, federazione italiana movimenti agricoli.

È dunque assolutamente indispensabile – prosegue – che i prodotti italiani agroalimentari di eccellenza, che meritano di essere esportati nel mondo, abbiano un simbolo unico di riconoscimento e dei disciplinari rigidi da rispettare. La ragione è semplice: esportiamo 31 miliardi e accanto a quelli ci sono 60 miliardi di imitazioni che si perdono per strada!

Ma l’eccellenza non deve discriminare le varie diciture/sigle/marchi che possono contraddistinguere i prodotti agroalimentari in ogni parte d’Italia, aggiunge la Fima.

Occorre dare a tutti – fa notare il coordinatore – l’ opportunità di beneficiare del marchio italiano che deve rimanere di proprietà dello Stato, non dei privati. Anzi i prodotti che debbono beneficiare del marchio italiano devono rispettare innanzitutto requisiti etici nei propri disciplinari (legati all’ assenza di contraffazione, pirateria, inquinamento delle falde, contaminanti, sfruttamento dei lavoratori, siano essi produttori di base come gli allevatori o operai delle industrie di trasformazione alimentare).

L’ idea del Ministro Martina, invece, di affidare il marchio di origine italiano ai privati utilizzando una corsia preferenziale per i marchi Dop è un po’ discriminante e, forse, inefficace. La ragione è semplice, spiega la Fima. I marchi Dop già beneficiano di generosi fondi italiani ed europei per la promozione ed i controlli. Se tutti quei marchi dop non hanno dimostrato sinora la capacità di fare rete, pur disponendo di risorse finanziarie e manageriali, non serve affidargli altre incombenze o altre risorse, ma controllare che facciano bene le cose per cui sono stati riconosciuti, possibilmente senza deroghe o contraddizioni.

Il punto però non è questo – secondo la Fima – ma fare in modo che le ricadute positive di una politica della qualità porti finalmente valore aggiunto al territorio, in modo diffuso ed equo, ai produttori di base, ai lavoratori e, soprattutto, ai consumatori globali. La maggior parte dei quali vuole l’ indicazione certa dell’ origine. Un’azione come quella ipotizzata dal Ministro, invece, in assenza di valori etici condivisi e di controlli serrati, rischia di generare inutili duplicazione del sistema per conservare lo status quo, regalare un pò di quattrini agli industriali e impedire una vera valorizzazione della nostra agricoltura di base, che oggi ha un disperato bisogno di rilancio e da cui tutti attingono l’immagine per vendere promesse spesso non vere.

Questa è la vera sfida che ci attende – dichiara De Bonis – se dobbiamo parlare di agricoltura, altrimenti siamo alle solite, cioè all’ utilizzo dell’ aggettivo “agroindustriale” come espediente per ammantare di agricoltura nazionale ciò che non esiste più! Basti pensare – sottolinea – che su 70 milioni di prosciutti italiani solo 22 milioni provengono da allevamenti nazionali, il resto da allevamenti della Germania o dall’ Olanda! E l’ elenco potrebbe continuare con il latte con cui si produce la famosa mozzarella, l’ olio deodorato con cui si costruisce l’ extravergine, etc.

Cosa garantisce allora una Dop, atteso che ai sensi del regolamento (CE) n. 510/2006 anche i paesi terzi dell’Unione europea hanno il diritto di richiedere che un proprio prodotto possa ottenere la Denominazione di Origine Protetta (DOP) oppure l’Indicazione Geografica Protetta (IGP)?

Grazie a tale regolamento, il consumatore dovrebbe avere la possibilità di ottenere chiare e succinte informazioni su tutti i prodotti DOP e IGP che gli consentano di poter scegliere di acquistare prodotti sicuri, siano essi prodotti in paesi membri o paesi terzi all’Unione europea.

Questo modo di concepire la tutela delle eccellenze – secondo la Fima – stà  però dimostrando, attraverso le varie inchieste condotte dalle forze di polizia, che a vincere è la tutela delle organizzazioni manageriali dello sfruttamento, che a redistribuire i redditi lungo la filiera non ci pensano minimamente e neppure a tutelare i consumatori.

Un marchio made in Italy, invece, oggi – rileva la Fima – dovrebbe tutelare innanzitutto l’idea di un’agricoltura che mette al centro l’etica. L’etica del lavoro, la dignità di chi si sacrifica con il proprio sudore nel portare avanti un’ azienda, una tradizione millenaria, la responsabilità sociale delle imprese sul proprio territorio, l’ origine di tutta la materia prima italiana, lasciando solo in ultima analisi alla scienza moderna del marketing di raccontare le favole per incantare i consumatori.

Se l’ Italia vuole inaugurare una nuova stagione nel villaggio globale della comunicazione – conclude la nota – deve creare un nuovo modello di sviluppo, trasmettere nuovi valori, valori autentici, senza subappaltarli agli egoismi dell’ industria. Altrimenti rischieremo di fare una grande operazione di marketing, a beneficio unicamente dei produttori di materie prime agricole tedesche o spagnole o francesi.

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