(ASI) Dopo il premio alla carriera, tributatogli durante la scorsa Milano Wine Week, Riccardo Cotarella porta a casa il riconoscimento di Forbes, in qualità di amministratore della società di cui è CEO. Il terzo riconoscimento, insieme al premio Wine Hunter, conseguito durante Milano Wine Festival.
Onorificenze che arrivano naturalmente, per l’enologo più famoso al mondo: perché la sua, come afferma lui stesso, è “una storia d’amore. Il vino è una scienza, che coinvolge biologia, chimica, fisica, non dimentichiamo che se lasciamo fare alla natura il suo corso le uve si trasformano in aceto. Ma è altresì il frutto di una relazione che coinvolge il territorio, le persone, le mani e i cuori che lo toccano.
Un enologo può influire in senso positivo o negativo, attraverso la tecnologia e la sua sensibilità, può affinare i pregi o accentuare i difetti”.
Da oltre 40 anni Riccardo Cotarella gira il mondo plasmandosi ogni volta sui singoli territori: dal Nord America al Giappone, con la gioia della scoperta.
“Ogni volta è un’esperienza sui generis. Tutto è da scoprire, non c’è bisogno di andare a Bordeux o nello Champagne, ogni territorio ha le sue prerogative. Ad esempio, la Serbia è un paese nuovo, in cui sto elaborando vitigni”.
Al pari, Cotarella sta lavorando in Georgia, terra che definisce “la madre di tutte le uve, sono nate quasi integralmente lì. Noi in Italia abbiamo una lunga tradizione in alcune regioni come Piemonte e Toscana, tante altre vinificavano ma con un prodotto di scarsa qualità. Poi, l’approccio scientifico e l’evoluzione delle conoscenze hanno portato a cambiare il risultato”.
Oggi, in Georgia Riccardo Cotarella porta quella sensibilità, quel tocco, quel rapporto con la natura e con la vita che lo rendono a tutti gli effetti unico, come i vini che grazie a lui vengono imbottigliati.
“Il vino sente, ti restituisce, ti parla. Ed essendo vivo ha elementi anarchici che ti sorprendono e trovano la loro via. Se dovessi fare un parallelismo direi che il vino non è un cane, fedele, asservito al padrone; è un cavallo, con la sua autonomia, quella dignità che ti rende impossibile dominarlo. Lopuoi indirizzare, non condizionare”.
Un percorso, quello di Cotarella, che inizia quasi per caso. Intenzionato a fare il geometra, viene spinto dal padre a fare l’enologo.
La terra in cui nasce è l’Umbria, limitrofa alla Toscana, patia di vini eccellenti: appena varcata la soglia di scienze agrarie Riccardo Cotarella si innamora perdutamente della natura, della campagna, “di quel miracolo che sovrintende la trasformazione da grappolo a vino”.
Dopo 6 anni di studio, il giovane Cotarella viene preso come quarto enologo da cantina Vaselli, esportatore di milioni di bottiglie negli Usa.
La sua capacità emerge per presto: “Avemmo un problema molto difficile da risolvere con il vino, oltreoceano e intervenne mio padre con la sua intuizione. Un tempo non c’erano le tecnologie attuali e mio padre diede una soluzione che pareva l’uovo di Colombo, invitandomi a ragionare. Restai nella cantina dal 69 all’81, come direttore”.
Da lì, la sua ascesa è stata inarrestabile: si deve a lui il mutamento della percezione che il mercato statunitense ha avuto in merito al vino italiano.
Come un sarto, Cotarella modula le misure sul corpo del territorio e delle individualità, anche culturali che lo abitano.
“Quando vado in Giappone mi sforzo di pensare come loro, di approcciarmi a vino e uva come un neofita, vagliando non solo clima e terreno ma attitudini. I giapponesi hanno una cura maniacale del dettaglio, basti pensare che ho fatto vino nel Nord del Giappone, dove d’inverno si va a 20 sotto zero e questi imprenditori sciolgono la vite dal tutore, la sdraiano a terra dove la neve fa da cuscinetto termico, a primavera la tirano su e a novembre la rimettono sotto.
Altresì, nel Sud tropicale del Giappone la proteggono con ombrellini. Poi, con lo stesso approccio passo alla Columbia Valley, sulle montagne dietro a Seattle, alla Sicilia. E’ un salto culturale continuo”.
Anche grazie al suo apporto, il ruolo dell’enologo è mutato.
“La degustazione non passa per il numero di bottiglie ma per la qualità dell’esperienza. Negli anni Ottanta il consumo era di 80-130 litri pro capite, oggi è di 30 ma sono esperienze diverse.
Oggi il consumatore è persona acculturata, sa quello che vuole è conscio di quello che paga e non si accontenta della storiella ma vuole informazioni sul tipo di terreno, il clone della varietà, le radici territoriali.
La trasformazione culturale che il vino –e le professioni ad esso legate- ha vissuto sono testimoniate dal fatto che oggi nei ristoranti i sommelier abbinano pietanza e vino partendo da quest’ultimo”.