(ASI) Abbiamo incontrato Antonella Speciale, l’autrice del libro “Il futuro sarà dell’umanità – Voci dal carcere” (edito da Dissensi). Con le abbiamo parlato dei penitenziari e della sua esperienza come educatrice all’interno di queste strutture
Chi è Antonella Speciale e come nasce l'impegno in favore dei detenuti?
Ho la fortuna di vivere in Sicilia, una terra socialmente e storicamente molto complessa, e abitando a Catania ho da sempre osservato le dinamiche della “vita di strada”, i quartieri, quell’umanità che sin da piccola ascoltavo vivere in certe canzoni di Fabrizio De Andrè, che è il mio maestro di vita. In effetti i miei studi sono stati umanistici, mi sono laureata in Lingue e letterature straniere, e nulla sapevo di argomenti relativi all’educazione, alla legge e così via. Ma ciò che mi è sempre interessato, un’urgenza interiore direi, è capire certe dinamiche di potere che schiacciano l’uomo, che lo gettano nell’ombra della sua coscienza, e di cui il carcere non fa che riproporne l’abisso. Io volevo, anzi dovevo, come un richiamo, vedere in quell’oscurità dimenticata dai molti, capire insieme alle persone recluse, fare un po’ di luce. Spesso ci siamo riusciti.
Cosa si prova a varcare quella porta sapendo che comunque si può uscire quando si vuole mentre gli altri non hanno questa possibilità?
Angoscia. Angoscia del blindo che si chiude alle mie spalle. Ma nulla in confronto a quella che mi confidò una volta una persona detenuta dicendomi: “l’angoscia del blindo che si chiude per fagocitarci dentro lasciandoci soli”. Dunque, rifletterei molto su questo, il mio impegno come volontaria è di trasmettere queste emozioni, come si vive dentro le mura.
Cos'è il carcere?
“Un labirinto dell’assurdo”: un non-luogo di disperazione, un dispositivo totalizzante che fagocita migliaia di storie diverse delle quali ignoriamo tutto. Il carcere è potere, burocrazia, fallimento, discarica, e troppo pochi sono gli Istituti che si distinguono in senso positivo (penso a Bollate) così come le iniziative formative – lavorative – reintegrative che aiutano la persona a rivisitarsi sono troppo, troppo rare e sporadiche. Il carcere è l’appendice malata del nostro Paese. Non migliora le persone che hanno commesso crimini: le peggiora.
- Cosa pensa del sistema penitenziario italiano e come si potrebbe migliorare?
Dal fallimento, dalla presa di coscienza, si può attivare un cambiamento: basta guardare i tassi di recidiva di chi ha scontato la pena in carcere (circa il 70%) e di chi invece l’ha scontata con misure alternative (circa il 20%); basta considerare che anche per gli agenti di polizia penitenziaria lo stress psicologico è fortissimo (un numero di suicidi in questa categoria lavorativa impressionante), per non parlare delle morti dei detenuti: insomma, il carcere non funziona. Dunque, una politica che utilizzi i fondi economici per creare strutture alternative, in base ai tipi di reati, (considerando il carcere come extrema ratio), strutture dove la persona abbia davvero le possibilità di reintegrarsi prima di tutto con se stessa (percorso psicologico) e poi con il mondo esterno attraverso studio, percorsi formativi, lavoro. Prima di guardare il crimine e “buttare le chiavi”, bisogna guardare la persona, ciò di cui ha bisogno, affinché non costituisca più un pericolo per la società.
Nel libro un dato che emerge e lì'impossibilità per molti detenuti di sottrarsi ad un destino che ha già deciso per loro. Per queste persone secondo lei è più duro entrare o uscire dal carcere?
Io in particolare mi occupo di detenuti di Alta Sicurezza, cioè imputati e condannati per reati di stampo mafioso. Nei miei laboratori ripercorriamo la storia personale, intima e interiore, la vita, dei soggetti, e ciò che emerge nei contesti nei quali sono cresciuti è l’incapacità di poter scegliere altro, un inquadramento dettato dall’ambiente circostante. Solo la cultura acquisita poi negli anni successivi farà in modo che molte di queste persone si mettano in discussione, rivisitino se stessi, il proprio vissuto, rinascano interiormente. Quando questa rinascita avviene, sono le persone stesse a sapere che una volta scontata la (lunga) pena, pur amando la loro terra dovranno andare altrove. Entrare in carcere è un’assunzione di responsabilità, se il reato sussiste, ma vi sono anche molti innocenti, e poi resta sempre la domanda sospesa degli ergastolani ostativi, che non avranno mai possibilità di uscire...sanno di essere condannati a morte, rinascono interiormente per morire tra quattro mura.
Ha altri progetti in mente per aiutare i detenuti a sopportare la reclusione e magari per favorirne il reinserimento sociale?
Continuo con i laboratori di scrittura autobiografica e creativa, che sono percorsi di autorivisitazione e condivisione, ma è importante che queste voci vengano ascoltate all’esterno, per una restituzione di ciò che il condannato è oggi, senza che sia cristallizzato nel reato commesso. Ecco perché ho scritto Il futuro sarà di tutta l’umanità, dove i veri protagonisti sono loro, i detenuti.
Fabrizio Di Ernesto - Agenzia Stampa Italia
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