(ASI) Lasciata la confortevole saletta del bar dove l’aveva convocato Diego Fabbri, Marco Ferreri affrontò a testa bassa il lastricato di Via della Conciliazione, scivoloso per i postumi del violento nubifragio che la sera prima aveva flagellato Roma. Per quanto a malincuore, aveva dovuto lasciare a spron battuto il montaggio del suo nuovo film: quella era stata una chiamata ineludibile, perché Fabbri non era soltanto un commediografo di gran successo e lo sceneggiatore candidato agli Oscar del Generale della Rovere di Rossellini, era pure il suo sceneggiatore per L’ape regina, il film che appena due mesi prima aveva guadagnato il passaporto verso le sale di proiezione, sebbene al prezzo di massacranti imposizioni da parte della censura governativa.
Uscendo dal bar, Ferreri aveva percepito un insolito silenzio, lí intorno, e, nel levare lo sguardo verso il cielo oscurato da una plumbea coltre di nuvole, s’era trovato coinvolto in un fitto andare di gente vero Piazza San Pietro. Pur senza averlo deciso, anche i suoi passi s’incamminarono nella stessa direzione.
Nel chiuso della mente seguitavano a rincorrersi quelle parole che gli avevano segato il fiato: «Mi ha telefonato Luigi Chiarini. M’ha pregato di parlare urgentemente con te e di aiutarti a capire. Capire in primo luogo proprio lui, che si trova in una situazione delicatissima, perché questo è il suo primo anno da Direttore alla Mostra del Cinema di Venezia. Poi, capire la gravità delle circostanze. Il fatto, purtroppo, è questo: lui deve cancellare il tuo nuovo film dal programma della prossima Mostra. Ha ricevuto pressioni da tutte le parti, dal Vaticano e dal Governo. Caro Marco, tu hai solo 35 anni e sei appena al tuo secondo film girato in Italia. Non avvilirti: c’è tutto il tempo per rifarti, per avere tante altre opportunità, a Venezia e non solo. Vedrai, il successo che hai avuto in Spagna lo avrai, e moltiplicato, anche qui in Italia. Devi capirlo, Marco, non è proprio possibile che un titolo come Il Papa buono venga annunciato tra le novità di Venezia proprio mentre il vero Papa Buono sta morendo!».
Camminando camminando, finí con l’accorgersi d’essere arrivato sul limitare delle smisurate braccia di pietra inventate da Gianlorenzo Bernini. Lí dentro, una sorprendente quantità di persone, molte inginocchiate. Un sommesso mormorio velava appena l’irreale silenzio, enfatizzando l’effetto notte creato dalle dense nuvole temporalesche, dalle luci elettriche spente e dalle tremule fiammelle di candela disseminate tra la folla.
Ferreri si sentí a disagio, in quel contesto di cui non afferrava il senso. Decise d’andarsene, senza fretta, tuttavia, dato che ormai era svanita l’urgenza di finire il film in tempo per la presentazione di fine Agosto a Venezia. Proprio in quel momento, una luce squarciò il buio, là in alto, in fondo alla piazza, sulla destra, dove la memoria visiva di tutto il mondo colloca la finestra dello studio papale. Un prolungato oooooh! si levò, quasi fosse un soffocato respiro di mare rassegnato alla notte. L’indomani, i giornali in tutti i continenti titolavano: Ieri, 3 Giugno 1963, alle 19:49, è spirato Papa Giovanni XXIII, al secolo Angelo Roncalli, universalmente noto come “il Papa Buono”.
Quella fin qui esposta avrebbe potuto essere, piú o meno, la verosimile ricostruzione dell’antefatto di una notizia entrata in circolazione, cinquantadue anni dopo il ’63, in quel contenitore di tutto l’attendibile e l’inattendibile che è Internet.
La notizia, estremamente stringata eppure quanto mai affascinante, appariva cosí formulata: «Il ritrovamento di alcuni spezzoni di un film inedito di Marco Ferreri del 1963 mostra come ben prima di Pasolini un regista avesse pensato di far interpretare al grande Totò un ruolo di una figura carismatica, religiosa e surreale, in questo caso Celestino V. Il Papa buono - cosí doveva intitolarsi questa opera i cui brandelli di dialoghi oggi ascoltiamo e analizziamo con il regista Giuseppe Sansonna ed il Direttore e Conservatore della Cineteca Nazionale Emiliano Morreale - non vide però mai la luce, a quanto pare per problemi di censura».
Un paio d’anni piú tardi, quella notizia, capitata tra le mani di un oscuro, e tuttavia non del tutto sprovveduto, cronista, suscita l’interesse a scoprire di quale entità fosse il clamoroso ritrovamento e quale destinazione o utilizzo ne fossero seguiti. In tutta evidenza trattandosi di un argomento affrontato nel corso d’una trasmissione radio o tv, si rivela abbastanza facile il risalire alla fonte, cioè a Melog, il programma condotto da Gianluca Nicoletti che Radio24 diffonde dal Lunedi al Venerdi. Nel sito di Melog c’è la registrazione e il cronista se la copia e se la studia. C’è anche la riproduzione di quello che potrebbe essere l’abbozzo d’una grafica pubblicitaria.
Qualcosa induce perplessità: specialmente, che gli esterni erano stati girati in Molise, nell’Abbazia di Ferrazzano, che in realtà non esiste. Nella grafica, in aggiunta all’indicazione di Aldo Fabrizi, Lisa Gastoni e Enzo Cannavale quali altri protagonisti, accanto a Totò, c’è una ipotetica foto di scena, ove il pontefice impersonato da Totò è presente con una mitria episcopale invece che con la tiara papale d’ordinanza, mentre sullo sfondo s’intravede non un’abbazia ma quello che è realmente il Castello Carafa di Ferrazzano, il tutto avendo l’aria di un fotomontaggio, sia pure d’accorta fattura. Comunque, i fattori di perplessità vengono ascritti alla famiglia delle imprecisioni di minimale rilievo. Quel che conta veramente sta nel parlato: l’accurata esposizione circa il dove e il come del ritrovamento, l’ascolto degli inequivocabili “brandelli” di dialoghi e, sopra tutto, l’affermazione che sono in corso lo studio accurato degli spezzoni e la ricerca di eventuali ulteriori materiali.
Il passo successivo ha come mira la scoperta della sorte toccata a quanto del mai nato film di Ferreri era stato recuperato. Emiliano Morreale non è piú in carica alla Cineteca Nazionale, né un successore è stato insediato. S’invoca il soccorso di qualche amicizia all’interno del Centro Sperimentale di Cinematografia e intanto s’indaga circa la possibilità che esista una documentazione di prima mano, magari la sceneggiatura o almeno qualche annotazione del regista o di suoi collaboratori. Questa ricerca qui attinge esiti promettenti, perché si viene a sapere che il vasto archivio personale di Ferreri è stato donato dalla moglie al Museo Nazionale del Cinema di Torino, dove sarà possibile andare a cercare, e probabilmente pure trovare, qualcosa di utile.
L’esito della ricerca al Centro Sperimentale, invece, è spiazzante: «Non c’è niente del genere, né archiviato, né in lavorazione. Né sarebbe stato possibile che ci fosse: la notizia del ritrovamento era un Pesce d’Aprile!».
Rapido riscontro e sonoro schiaffo sulla fronte: perché non aver fatto caso al giorno di trasmissione di quella puntata di Melog, perché non averne súbito intuito l’ovvia finalità ludica? L’anno dell’andata in onda, va bene!, è l’innocuo 2015, ma, accidenti!, il giorno è il 1° Aprile!
Dunque, tutto da mandare al macero? Riflettiamo! Quei tre sono tutt’altro che dilettanti allo sbaraglio: Nicoletti scrittore e autore teatrale e radiofonico, Morreale critico cinematografico e professore universitario, Sansonna regista scrittore e critico cinematografico pure lui. Quel che hanno prodotto tutti insieme non è un’insignificante goliardata, è piuttosto uno stringato capolavoro di creatività: scorre secondo la linearità e il ritmo dello specifico radiofonico ma nel contempo evidenzia un’impeccabile sceneggiatura cinematografica ben incardinata in un efficiente schema drammaturgico.
«Sansonna, da dove è venuto fuori il progetto del vostro Pesce d’Aprile radiofonico?».
«L’idea fu mia, súbito accolta da Morreale e Nicoletti. Pensammo a un gioco tra amici, mettendoci a fare un po’ i piccoli Orson Welles. Certo, non con la velleità di ripetere il clamore dell’exploit radiofonico sulla Guerra dei Mondi, piuttosto ammiccando alle stralunate spericolatezze radiofoniche di Giorgio Bracardi. Diventò una sorta di jam session, in cui ognuno ha messo del suo, concatenando le rispettive idee e suggestioni».
«E la spericolatezza di coinvolgere una figura come quella di Celestino V, cosí lontana dalla sgangherata quotidianità del nostro tempo?».
«Avevo immaginato di puntare su Celestino V perché avevo appena girato un documentario a Sulmona. Lí ero entrato in contatto con quel suo mondo stralunato di eremita, piuttosto naïf, imbevuto d’una intensa spiritualità genuina, estraneo ai geroglifici del potere, intensamente partecipe della straziante realtà dei diseredati».
«Come dire che un personaggio del genere sarebbe stato perfetto per un film basato sugli stravolgimenti del senso comune, com’era tipico di Ferreri».
«Vedemmo in lui in sostanza un corpo estraneo alla Chiesa ufficiale, alla Chiesa come potenza temporale, il che rendeva naturale incrociarlo con il mondo nero di Ferreri».
«Perciò, era inevitabile pensare a un interprete capace di raccontare la realtà attraverso il suo rovescio».
«Già, altrettanto naturale ci venne l’idea che quel corpo estraneo potesse trovare l’interprete ideale in Totò, grazie ai corto-circuiti di se stesso che Pasolini aveva ben intuito congeniali a quella consapevolezza del dramma esistenziale incardinata nel personaggio affidatogli in Uccellacci e uccellini».
Affinché il Pesce d’Aprile avesse l’aria d’una ben fondata credibilità, ovviamente, non bastava limitarsi a inventare un film utilizzando ingredienti capaci di farne apparire del tutto veritiera la genesi, occorreva pure escogitare una spiegazione per la scomparsa della pellicola. Infatti, nel corso della puntata di Melog i suoi tre inventori argomentarono che il finale d’anno del 1963 era stato pervaso da tragedie di tale portata da annebbiare qualsiasi interesse per le sorti del film di Ferreri su Celestino V: il 9 Ottobre crollava la diga del Vajont e il 22 Novembre veniva assassinato John Kennedy. Per rincarare la dose fumogena, avrebbero potuto aggiungere che pure la Mostra di Venezia di quell’anno, la 24° della serie, aveva a lungo monopolizzato le cronache, non solo quelle culturali, con i clamori suscitati dal film vincitore del Leone d’Oro, il poderoso capolavoro di Francesco Rosi Le mani sulla città.
Gli autori di quei venti minuti radiofonici sostengono d’aver improvvisato. Può essere vero, fino a un certo punto: se hai familiarità con le tecniche espressive – e quelli ce l’avevano in abbondanza – una felice improvvisazione è comunque governata dalla professionalità retrostante.
Al di là dell’occasione e delle intenzioni ludiche, resta la materia nobile di quei venti minuti del trio Morreale-Nicoletti-Sansonna, che è, sí, l’ideazione e conseguente manifattura, ma è anche l’estro che ha guidato a miscelare nel medesimo contenitore la memoria di figure diversissime l’una dall’altra e tuttavia accomunate dall’aver espresso autorevolmente nei rispettivi ambiti professionali e morali un ruolo dirompente tuttora capace di emozionare e far riflettere. Niente piú d’un effimero Pesce d’Aprile nel campo dello spettacolo, eppure un’invenzione meritevole di non venire dimenticata.
Errico Centofanti