(ASI) Il prossimo 13 novembre, presso il Tar del Lazio si discute una vicenda che è a dir poco allucinante, e comunque emblematica di come vanno le cose in Italia. A rendere pubblico il caso è questa volta una lettera inviata al Capo dello Stato Sergio Mattarella e in cui un professionista romano, Giuseppe Di Pietro, pone una domanda semplicissima che per comodità di linguaggio tradurremo in questo modo: Signor Presidente ma le pare giusto che per colpa della burocrazia ministeriale, o peggio ancora per colpa di un malcostume generalizzato, io proprietario di un appartamento fittato ad un artista di origini bulgare nel lontano 1970 non sia più riuscito a riavere la mia casa per via di un ipotetico vincolo di inamovibilità che il Ministero dei Beni Culturali, incurante delle sentenze che si sono succedute in questi anni fa il bello e il cattivo tempo con le cose degli altri?
Fatto sta però che il dottor Giuseppe Di Pietro da 30 anni aspetta di poter godere della proprietà della sua casa fittata nel 1970 ad uno scultore di nome Assen Peikov, al piano terra in Via Margutta al numero 54 per la modica cifra, allora, di centomila lire al mese.
Nel 1984 Giuseppe Di Pietro acquista questo stabile che nei fatti era stato adibito dall’artista bulgaro in uno studio d’arte, un laboratorio dove Assen Peikov trascorreva le sue giornate disegnando e scolpendo le sue opere. Nel frattempo muore e il locale resta al figlio Rodolfo, ma intanto il contratto è arrivato a scadenza e Giuseppe Di Pietro spera di poter riacquistare l’uso e quindi la proprietà reale della sua casa. Nulla da fare.
Le resistenze sono tali da dover ricorrere alla magistratura e la prima udienza data addirittura 23 dicembre 1986. Il 20 gennaio 1987 il pretore di Roma dichiara “finito” il contratto di locazione e intima al figlio diAssen Peikov , Rodolfo, di lasciare libera la casa di Via Margutta entro e non oltre il 30 novembre di quello stesso anno. Badate bene, 32 anni fa il pretore di Roma ordina lo sfratto dell’abitazione contesa. Bene, oggi, a distanza di 32 anni da quella prima ordinanza il dr. Giuseppe Di Pietro aspetta ancora di poter rientrare nella sua casa.
Ha deciso allora di scrivere al Capo dello Stato, con l’intima speranza questa volta, dice lui, che la Presidenza della Repubblica intervenga sul Ministro dei Beni Culturali e a cui Giuseppe Di Pietro scarica gran parte della responsabilità di questa vicenda.
Cosa è successo in effetti? E’ successo che se da una parte in tutti questi anni la magistratura ha riconosciuto la titolarità piena del professionista romano a riavere la sua casa, dall’altra parte alti burocrati del Ministero dei Beni Culturali hanno di fatto bloccato questo processo di riacquisizione del bene perduto, con una motivazione semplicissima ma anche grave: riconoscendo a questo locale usato dall’artista bulgaro come “officina artigianale” dove creare le sue opere uno status giuridico di bene artistico da salvaguardare, e come tale “inviolabile”. Lo avremmo capito nel caso si fosse trattato delle opere di Michelangelo o Raffaello, commenta sornione lo stesso Giuseppe Di Pietro, ma non in presenza di un artista che non è mai stato considerato tale da nessuno al mondo, e comunque non ci pare si sia in presenza di un genio della scultura moderna. Pazienza, ma in Italia basta che un semplice funzionario del Mibact si convinca che un bene esaminato abbia interesse storico e artistico per bloccare lunghissimi e fastidiosissimi processi amministrativi utili solo sulla carta, perché Giuseppe Di Pietro dopo aver trascorso questi ultimi 32 ani della sua vita tra un’aula giudiziaria e l’altra aspetta ancora di poter riavere la titolarità a rimettere piede nella sua vecchia casa di Via Margutta.
Fu il Ministro Facchiano, nel lontano 1989 a firmare la prima dichiarazione ufficiale di “bene tutelato e sottoposto ai vincoli previsti dalla legge 1 giugno 1939 numero 1089”. In parole povere, i funzionari mandati a Via Margutta per una loro valutazione avevano stabilito in piena autonomia e in assoluta discrezionalità che quello che era rimasto dei lavori di Assen Peikov era “degno di essere tutelato”. Parliamo- lo dirà meglio il proprietario della casa di Via Margutta ai vari magistrati amministrativi- di bozzetti e di opere d’arte senza “nessun valore accertato o dimostrato”.
Riparte la macchina giudiziaria, e i ricorsi e controricorsi vari non fanno altro che riconoscere le ragioni del proprietario defraudato del bene originario, intimando ancora una volta al figlio dell’artista la restituzione del bene acquisito anticamente dal padre. Volete sapere a quanti ministri si è formalmente rivolto il titolare della casa per avere un minimo di giustizia? Tanti davvero, da Sandro Bondi a Galan, ma poi anche Ornaghi, Bray e ultimo in ordine di tempo Dario Franceschini. Ma non solo loro. Il dottor Di Pietro h a informato di questa vicenda assurda e per certi versi “scandalosa”- dice lui- anche vari Capi di Stato, l’allora Premier Matteo Renzi, e l’allora Capo di Stato Giorgio Napolitano.
Risultati? Nessuno. il silenzio più assoluto. L’unica novità riguarda l’esecuzione di sfratto della casa di Via Margutta, Giuseppe Di Giuseppe ottiene finalmente 17 anni anni dopo, nel settembre del 2006, ma lui “poveraccio” non può riemettere ancora piede nella sua casa per via di un vincolo artistico che a giudizio dei suoi legali è tutto ancora da verificare e da dimostrare.
Basterebbe dare una scorsa attenta e meticolosa alla mole di carte che il professionista romano ha prodotto in questi anni ai suoi legali per individuare, semmai ce ne fossero responsabilità dirette o compiacenze nascoste in tutti questi anni passati, ma questa è materia diversa da un processo civile o amministrativo.
E non è escluso che i Giuseppe Di Pietro, dopo questo ennesimo appello al Capo dello Stato Sergio Mattarella decida azioni legali diverse da quelle fino ad oggi intraprese, perché anche se tutte conclusesi con successo per lui, alla fine la vera beffa è che dopo 32 anni, Di Pietro continua ancora a non avere il diritto a rientrare e a vivere la sua vecchia casa. Assurde vicende italiane dei giorni nostri.