(ASI) E’ recente la decisione del governo cinese di adottare un provvedimento teso a difesa dell’identità. In nome dell’autarchia linguistica, infatti, Pechino bandisce l’utilizzo della lingua inglese nei media cinesi.
L’Agenzia Stampa di Stato ha motivato la battaglia contro l’allogeno idioma anglosassone sostenendo che il suo abuso “mina la purezza della lingua nazionale” e “distrugge uno sviluppo linguistico e culturale sano e armonioso, ed esercita un influsso negativo sulla società”. Chiarisce inoltre l’Agenzia Stampa di Stato che sarà possibile utilizzare parole straniere solo in casi straordinari, salvo fornire un’adeguata traduzione o spiegazione in cinese. Previste, per quanti contravverranno a quanto stabilito, sanzioni amministrative dall’ammontare pecuniario non specificato. La stampa cinese dovrà evitare acronimi inglesi che, anche nel contesto mediatico cinese, sono effettivamente molto frequenti, come NBA per indicare la lega di pallacanestro statunitense o Pil per il prodotto interno lordo. Soprattutto, il provvedimento del governo intende debellare il fenomeno del cosiddetto “chinglish”, o “cinglese”, ossia quell’ibrido linguistico che nasce dalla formulazione di frasi contraddistinte dalla promiscuità di parole inglesi e grammatica o sintassi cinesi. Gli effetti di questo mix linguistico intercontinentale, sebbene largamente diffuso sulla rete e tra i giovani, sono spesso assurdi, poiché producono frasi dall’interpretazione creativa; è noto in tal senso il caso del cartello presente all’ingresso di un prestigioso albergo di Pechino che arreca la scritta d’avvertimento per gli ospiti “Per favore lasciate ciò che avete di prezioso alla reception”. Eppure, un provvedimento governativo non sembra essere la soluzione ad un problema che, con ogni probabilità, tende ad estendersi in modo sempre più veloce. Del resto, certi cambiamenti sono inevitabili in un paese - quale la Cina è - entrato a far parte del sistema capitalistico globale e che, pertanto, costringe molti suoi abitanti per motivi professionali a viaggiare per il mondo e ad imparare l’inglese. Date certe premesse di carattere storico e geopolitico, la battaglia di questi difensori della purezza della lingua cinese appare certamente temeraria, per alcuni anche persa in partenza, per altri ancora addirittura parodistica; ma se non altro è un segnale di resistenza culturale all’appiattimento dovuto alla globalizzazione. Almeno, in questo senso si colloca la lettura che ne dà l’Ambasciatore Bruno Bottai, presidente della “Società Dante Alighieri”, associazione che si occupa dell’insegnamento e della difesa della lingua e della cultura italiane. “Dai cinesi ci giunge un vero e proprio esempio di coscienza nazionale - afferma il Presidente della “Dante” -: tutti noi riconosciamo l’indiscusso valore dell’inglese quale idioma veicolare, ma consideriamo comunque irrinunciabili la difesa e la promozione della nostra lingua, simbolo di identità ed elemento unificatore dell’Italia. Per questo condividiamo in pieno la presa di posizione della Cina, custode di una lingua di millenaria cultura”.
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