Le conseguenze di questa politica spietata al ribasso dei prezzi ricadono sulle 80.000 persone che, in fuga dalla miseria dei loro Paesi d’origine in Africa e nell’Europa dell’Est, si sono trasferite in Spagna per lavoro. Nelle serre lavorano fino a 16 ore al giorno, spesso per meno di 2 euro l’ora. In estate in queste serre la temperatura supera anche i 50 gradi. I polmoni dei lavoratori, senza alcuna protezione, sono esposti a polvere e pesticidi velenosi. In mezzo al mare di plastica, migliaia di loro vivono in piccole rimesse costruite con cartone o con resti di plastica, senza acqua potabile, corrente elettrica, bagni. Ogni settimana moltissime persone si assiepano in piccole imbarcazioni sulle coste africane per raggiungere l’Europa. Molti di loro annegano durante la traversata. Spesso, quando si imbarcano, hanno già alle spalle mesi di viaggio dalle loro terre di origine attraverso il Sahara. A spronarli è la speranza di un futuro migliore. Molti dei profughi provenienti dall’Africa sbarcano sulle coste spagnole. Qui vengono considerati ufficialmente clandestini, ma al tempo stesso vengono accolti a braccia aperte come lavoratori privi di diritti nelle piantagioni ortofrutticole. Viene da dire perché queste persone si lasciano sfruttare a condizioni spaventose per circa 20 euro al giorno. Beh, la risposta è tanto banale quanto semplice e piena di verità: perché nei loro Paesi spesso non guadagnano una cifra simile neanche in due settimane. Corresponsabile di tutta questa situazione è l’industria alimentare. Chi ad esempio si trovasse in Mali o in Senegal a girare per i mercati, scoprirebbe una quantità di merci europee, spesso più convenienti dei prodotti locali. Il motivo è da ricercare nella politica agraria dell’Unione Europea (PAC) e di altri Paesi industrializzati, che finanzia tramite sovvenzioni l’industria ed incoraggia le esportazioni. Solo l’Unione Europea paga quasi un miliardo di dollari di sovvenzioni al giorno, incentivi che, vengono finanziati con nostre tasse.
Anche gli stati africani ricevono aiuti all’agricoltura per un miliardo di dollari, all’anno però. Grazie alle sovvenzioni le multinazionali occidentali sono in grado di vendere i loro prodotti nei Paesi più poveri ad un prezzo più basso rispetto alle merci locali. Il latte in polvere della Nestlè, per fare un esempio, è più conveniente del latte locale. In questa situazione gli agricoltori locali sono spinti verso la rovina, perché non sono in grado di prendere parte alla lotta dei prezzi; perdono quindi il lavoro e le loro basi vitali. Spesso non rimane altro che la fuga verso l’Europa. Il fatto poi che molti africani, una volta giunti a destinazione, finiscano per lavorare per le aziende che hanno causato la loro miseria è un paradosso. Così si chiude il cerchio infernale della povertà e dello sfruttamento, spesso con la collaborazione dei nostri governi. In tanti si chiederanno che non dovremmo mangiare più. Non è assolutamente così. Perché in nessun altro settore come l’alimentare le alternative sono tante. Se è difficile per altri prodotti, tecnologici, abbigliamento, per l’alimentari basta preferire alimenti di produzione locale, consumare meno carne, acquistare cibi di denominazione biologica, acquistare se possibile prodotti equo e solidali. In generale i prodotti di origine locale sono migliori rispetto ad alimenti trasportati per lunghe distanze. La frutta europea ad esempio, non solo provoca meno danni ambientali, ma non viene nemmeno raccolta da bambini sfruttati nelle piantagioni. Quando è presente il marchio “Bio”, quello che c’è dentro è controllato dall’UE. Almeno così dice il disciplinare. Questa pratica biologica, come molti sanno, implica la coltivazione di materie prive di pesticidi, coltivate con forme di allevamento animale e lavorazione biologica. Nei prodotti biologici, l’uso degli OGM e di prodotti pericolosi per la salute è vietato.
Davide Caluppi -Agenzia Stampa Italia
Fonte: www.oxfarm.org
www.foodwatch.de
www.antislavery.org