(ASI) «Viviamo in un’epoca in cui la guerra è diventata la forma più diffusa di diplomazia. Se i popoli rivendicano diritti con le bombe, nelle case si usa il coltello. E tra bomba e coltello, il passo è breve». Con queste parole Antonio Guidi, neuropsichiatra e già Ministro per la Famiglia, oggi senatore, sintetizza la spirale di violenza che attraversa il nostro tempo.
Il femminicidio di Fernanda Di Nuzzo, maestra d’asilo di 61 anni, accoltellata a morte dal marito a Grugliasco davanti agli occhi della figlia con sindrome di Down, rappresenta una ferita universale che scuote e obbliga a guardare più in profondità. La donna, colpita con ferocia, ha tentato invano di fuggire prima di accasciarsi sul pianerottolo. La figlia, ventiquattrenne, ha assistito a tutto. È stata lei, ancora in stato di shock, a chiamare i soccorsi. Un dramma che colpisce doppiamente chi assiste, ancor più se vive già una condizione di fragilità.
Senatore, come legge, da neuropsichiatra, il trauma subito dalla figlia della vittima?
«È un’esperienza devastante. Essendo una ragazza con una ricchissima capacità interpretativa ma una ridotta libertà di scelta, ogni emozione ha un’amplificazione maggiore. In questo caso ha vissuto il massimo della negatività: la perdita della madre, avvenuta davanti ai suoi occhi e in modo brutale. È una tragedia di proporzioni incolmabili. La sua ferita diventa immensa e totale. A breve termine, le conseguenze possono essere sgomento, pianto inconsolabile, rifiuto della realtà, perdita del desiderio di vivere. È un dolore che investe in maniera totale. A cui si aggiunge la nuova solitudine».
Si parla ancora troppo poco di violenza assistita. Cosa manca, oggi, per proteggere queste vittime invisibili?
«Manca la presa in carico. Ogni caso è un caso a sé, ma tutti richiedono un sostegno psicoterapeutico serio. La psicoterapia non può restare un lusso per pochi. Dobbiamo garantire un’assistenza psicologica accessibile e continua»
Quella figlia, però, è riuscita a reagire, a chiedere aiuto. Si può parlare di resilienza inconsapevole?
«Probabilmente sì. Ma dovremmo avere il buongusto di non dare giudizi. Lo shock paralizza, ma la reazione attiva non cancella il dolore: lo rimanda. E più è rimandato, più è potente. Nel caso di una persona con sindrome di Down, con meno occasioni di vita autonoma – socialità, amore, complicità – ogni trauma vissuto assume una dimensione definitiva. Non si ha la stessa libertà di ricostruzione».
La narrazione pubblica tende a semplificare le cause di questi delitti, parlandone come “raptus”. Quale è il rischio della patologizzazione di avvenimenti ormai sistematici?
«Patologizzare un delitto significa, in fondo, renderlo più giustificabile. Come se l’orrore fosse mitigato dalla malattia del colpevole. Ma non è così. Questi atti non nascono da una malattia: nascono da una visione contorta della realtà»
E proprio sul piano culturale e politico, cosa servirebbe oggi con urgenza?
«Onestamente, non mi affascina il buonismo. Insegnare il rispetto nelle scuole o fare educazione sentimentale sono cose giuste, ma volatili. Viviamo in un mondo dove la guerra è la prima opzione, e allora anche in casa si risponde con la violenza. All’interno delle coppie, spesso il più debole si traveste da forte, impugnando un coltello. Dalla bomba al coltello, appunto, è breve la distanza.»
Se potesse oggi parlare con la figlia della vittima, che parole userebbe?
«Nessuna. Starei in silenzio. Il silenzio è la forma più rispettosa di fronte a un dolore così immenso. Cercherei solo di esserci, con una dolcezza non verbale, con un rispetto profondo. La parola, in certi casi, rischia di ferire ancora. Chi è testimone di una tragedia simile diventa un simbolo della fragilità estrema. E anche un monito per tutti noi».