(ASI) – A respirare l’aria frizzante della Copa Libertatores, anche se non in terra natia, è il River Plate. L’altro volto di Buenos Aires, convolato a Madrid per la finale col Boca, consegue per la quarta volta nella sua storia il titolo di campione della “Champions League” sudamericana. I gialloblù si arrendono ad un discordante destino, nonostante l’ingresso nei minuti finali (un po’ tardi) di Carlitos Tevez, uno dei soli mediatori della “trattativa” volta a legiferare sulla giocabilità o meno della partita in Argentina.
Del risultato poco resta, se non la perduta dell’onore, come da tradizione, da parte del popolo vinto che per un po'- a detta dei tifosi – dovrà rimanere nel proprio corredo domestico per un periodo di tempo, prolungato si vocifera. Malgrado la discrezionalità o meno di una parte della tifoseria, quello che echeggia ancora, nonostante la fine del tutto, è una sensazione gattopardiana che inscindibilmente si lega ad una consapevolezza recondita circa il calcio argentino come specchio di una politica inefficiente e viziosa. La trasferta forzata in Spagna, in conseguenza di scontri avvenuti, come sempre, tra le “Barra Bravas”- omonimi degli ultras europei – ha accentuato in parte quel sentimento etnocentrico relativamente ad una fierezza del vecchio continente circa un monopolio sul processo di formazione sociale (“i tifosi sanno che qui non possono comportarsi male” aveva asserito Tevez alla vigilia), in parte ha fatto si che venisse lasciato in penombra il dramma della corruzione di uno sport che in sudamerica, per le persone, nella scala gerarchica degli affetti, viene subito dopo. Le Barra Bravas, che sono un’organizzazione di certo non formata da piccoli furfanti, infatti, tendono a relazionarsi più volte con il direttivo delle squadre e con le autorità poliziesche in cambio di favori e ingressi gratis allo stadio, un po’ come accaduto anche in Italia (Juve e Napoli su tutti) ma che laggiù tuttavia assume delle dimensioni maggiori. La Doce, “il dodicesimo giocatore in campo”, la barra brava del Boca Juniors, spesso si è resa protagonista di scontri con del gas lacrimogeno contro i giocatori del River nel 2015 che causò poi la sospensione della partita. I gruppi ultrà rappresentano anche un’ipotesi di riscatto per molti giovani che vivono nei quartieri più poveri della città, perché la via più semplice per accumulare del guadagno è proprio quella di far parte di questi agglomerati, ereditarne una mentalità “imprenditoriale” attraverso il controllo sul commercio di cibo, bevande e magliette che una società garantisce per i propri tifosi occorsi allo stadio. Ma le attività redditizie però sono quelle che derivano dalla vendita della droga. Il governo argentino come unica entità dotata di un potere esecutivo anziché combattere il tarlo che affligge una società già di per sé compromessa, asseconda ogni mossa delle barras bravas. Gli episodi accaduti prima della finale tuttavia hanno fatto il giro del mondo stavolta e pertanto si è ritenuto necessario quantomeno salvare il “salvabile”. Ma una volta conclusa la finale a Madrid, evento che è stato normalizzato peraltro, il calcio argentino continua ad essere macchiato del solito male e il detto “cambiare tutto per non cambiare niente” si confà proprio a questo.
Elisa Lo Piccolo – Agenzia Stampa Italia