(ASI) Magari fosse così. Se fosse tutto così semplice e banale: fatto fuori il patriarcato, grande cavallo di battaglia del movimento woke, tutti liberi e salvi.
In ogni slogan ideologico, c’è un’insopprimibile tensione moralistica e consolatoria. Ma non funziona, la realtà è di tutt’altro spessore e profondità.
Proprio in questi giorni, ho riascoltato un’opera del teatro-canzone di Giorgio Gaber, “Anni affollati”. Eravamo nel 1981, un secolo fa. Eppure, la questione era già chiara. Canta, pensante cervello critico, Gaber: il nichilismo è quel mondo fatto per noi, “che non crediamo più in niente”. Tutto era già stato disegnato, non in miniatura, ma come un gigantesco murales sullo sporgente muro della storia, a coprire i cascami dei “vecchi moralisti”, così canta Gaber. Risultato: dal fondamento etico-sociale, legato alla vecchia e solida metafisica e perfino al diritto naturale, bandito anche dal pensiero cattolico post-moderno, siamo passati all’ “effimero”. Effimero è il vuoto pneumatico elevato a stile di vita: tutto scorre, tutto si dissolve nell’aria e noi ci adattiamo a questo perpetuo cangiamento, tanto sterile quanto retoricamente stucchevole. Il battesimo laico dei nichilisti in carriera. Chi aderisce a questo modello di vita? Va da sé, il Consumatore assoluto, colui che vive la società come un immenso Black Friday, un mercato erotizzante e super-eccitante. Il Consumatore assoluto è un fascio di sensazioni, emozioni e vibrazioni, è quello che “sente”, “si emoziona”, “vibra” al suono del Totem che ha ingoiato ogni tabù, anche quello, sacro, del rispetto della vita. In un mondo di puro sentire, può accadere di tutto, dalla contemplazione di un arcobaleno, all’alba, alla mattanza di una giovane vita, legata un tempo a te, ora altro da te, cosa che non puoi accettare. L’età dei diritti, spiega Ricolfi, può portare a questo, ci sono sempre degli effetti collaterali negativi: hai diritto al lavoro, all’affermazione, al successo, alla felicità, quindi hai diritto anche a possedere un’altra persona. C’è del vero, in questa lettura, ma non mi basta. Chi vive così e poi si rifugia nei cuoricini sparati sui social, in un deserto di solitudine che non trova finestre aperte sulla vita, è figlio di un mondo che, insieme ai diritti assoluti, ha negato il diritto alla verità, il dovere di ricercarla e la possibilità di alzare lo sguardo, per catturare la forma di un cielo carico di speranza. “Dio è morto, e siamo stati noi ad ucciderlo”, sentenzia, amaro, Nietzsche. Quel soggetto “noi” è di inquietante attualità, ma non si riferisce ad una colpa presuntamente collettiva, di genere, perché chi ha alzato la mano omicidaè solo Filippo Turetta, e nessun altro. Non esiste una responsabilità collettiva che neghi la responsabilità individuale: un uomo ha ucciso e un uomo è responsabile. Quell’uomo, in quella circostanza, con quella barbarie. Il resto è menzogna e nulla più.
Certo è che decenni di questa gabbia d’acciaio, modulata secondo un “nichilismo gaio” (Testori-Del Noce), da un lato, e a misura di un totalitarismo soft (sempre Del Noce), dall’altro, e quest’ultimo sostanziato di “non c’è nient’altro che…”, approdando all’homunculus (Viktor Frankl), ha ridotto l’io ad uno scheletro senza vita, privo di carne e passione per ciò che vale (si chiama “valore”), può durare e portare a compimento la vita dell’uomo. Ecco il punto. E qui il mondo dominato dai diritti con i suoi effetti collaterali ha già esaurito la sua capacità interpretativa.
Cosa c’entra con tutto questo il patriarcato?
Cosa ha a che fare questo impressionante e sistematico processo di regressione antropologica, culturale, etica e religiosa - con tanto di smarrimento, in corso d’opera, del senso religioso e della gioia di vivere -, con il “patriarcato”?
Semplicemente niente. Gli uomini del nostro tempo, tra l’altro, perfino scarichi fisiologicamente di testosterone, come viene confermato da autorevoli ricerche scientifiche, e senza più padre, l’ “assente inaccettabile”, come scrisse già molti anni fa Claudio Risé, ammazzano donne soprattutto nel “favoloso” e “progredito” Nord Europa, in Svezia, Norvegia, Danimarca, in cui autori fanno buoni affari vendendo libri in cui si parla di “uomini che odiano le donne”. Terra del “patriarcato” anche questa? Semplicemente ridicolo. Per citare Gaber: “Ma attenzione: perché tra l’avere la sensazione che il mondo sia una cosa poco seria e il muovercisi dentro, perfettamente a proprio agio, esiste la stessa differenza che c’è tra l’avere il senso del comico e l’essere ridicoli” (da “Anni affollati”, brano in prosa intitolato “Il presente”).
L’ideologia di ogni genere e specie è l’opposto speculare, identico di fatto nelle sue ricadute esistenziali, del nichilismo. Figli dello stesso dèmone. L’oscillazione pendolare ha dettato l’ultima parola: chiusa la pratica storica delle ideologie o “grandi narrazioni” (Lyotard), da troppo tempo sepolta negli archivi dei padroni del pensiero, l’io è rimasto solo, al freddo, come un cane senza collare nella tormenta, senza più amore per l’altro, ormai divenuto un estraneo, anzi un nemico. Poi, si sceglie il nemico principale e si scaraventa lo spappolamento quotidiano contro la sua figura. Così è stato.
L’io solido, metafisicamente, eticamente e religiosamente orientato, si apre al mondo. Per contro, l’ego frustrato e sconfitto distrugge il mondo, cercando poi di morire sul letto della sua disperata mossa nullificante.
Ultimo atto
Così si è spento il sorriso aperto al futuro di Giulia Cecchettin, per la mano assassina di Fabio Turetta, nel torbido e ancestrale movimento di quel male compiuto dall’uomo in carne ed ossa, che è sempre quell’uomo in carne ed ossa e non un perverso ingranaggio del “sistema”. Un soggetto, dunque, gravato dall’intero carico di responsabilità. Un’espressione, questa, del male che gonfia i giorni della nostra storia, dalla nascita dell’uomo, e che rimanda a quanto già affermato dal drammatico e necessario Dostoevskij: “Se Dio non esiste, tutto è permesso”.
Raffaele Iannuzzi – Agenzia Stampa Italia