(ASI) Politica, democrazia, economia, diplomazia, guerra: i cambiamenti cui assistiamo modificano in profondità la sostanza che vogliamo esprimere in queste parole.
La Bomba, le sanzioni commerciali, il combattimento finanziario di valute e di credito.
Guerra. Le nazioni europee negli ultimi decenni quasi tutte avevano abolito l’obbligo di leva, ora pensano di reintrodurlo.
Prime vittime della guerra – oltre all’orrore dei morti sul campo – sono la politica e le relazioni diplomatiche. I generali dispongono,politici e ambasciatori eseguono. Nelle nazioni che noi definiamo autoritarie, dittatoriali,monarchiche e non, a volte perfino teocratiche, decide il leader. Ma anche in quelle, come la nostra, che sono definite democratiche, la guerra ha minato il campo.Il segretario della NATO indica il fabbisogno di carri armati e missili e Parlamenti e governi ottemperano. E’ capitato alla Germania con i carri Leopard. Succede da noi con le periodiche ratifiche del fabbisogno di armi in base alla lista redatta da Zelensky.
In tempo di guerrala democrazia non gode di buona salute. Ben lo sapeva Churchill, quando, per rianimare gli inglesi stressati dalla Seconda Guerra Mondiale, intervenendo ai Comuni disse: “Se è vero che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre forme che si sono sperimentate finora, è bene che diventi un vizio, nella speranza che sia difficilissimo poi smettere”.
La lezione di Winston, “Winnie”, Churchill vale oggi anche per noi. Dovremmo custodire e curare la nostra democrazia sempre più malata.Invece lustro dopo lustro la malattia s’aggrava. Alle ultime regionali la percentuale delle astensioni ha raggiunto il 60%. A Roma ha votato solo il 33%. Qualcuno si è chiesto se in simili condizioni il risultato del voto è ancora legittimo. L’interrogativo è mal posto. Tecnicamente gli astenuti non contano. Ma se guardiamo alla sostanza, qual è la soglia oltre la quale la democrazia cede il passo all’autocrazia?
Una democrazia, ancorché malata, è sempre meglio di una dittatura.Ma quando la malattia diviene cronica, è difficile misurare le differenze. Storciamo il naso verso società come la Russia, dove è vero che si vota ma il dissenso non trova spazio di parola. O verso democrazie “immature” come quella indiana, dove accanto al voto a suffragio popolare sopravvivono caste e analfabetismo (25%),euna miriade di partiti (circa 1500) non sono riconosciuti. O chiudiamo gli occhi per non vedere che in Israele, accanto al sistema di voto “democratico”, permane il “double standard” della schedatura religiosa dei cittadini.
Verso teocrazie, emirati e sultanati ci moviamo con geometrie variabili. Quelle non sono certo democrazie. Secondo utilitarismo e convenienze temporali li guardiamo come amici o stati canaglia. Pronti a gridare allacanaglia verso l’amico di un tempo quando non ci serve più. Com’è successo a Saddam Hussein.
Il fatto è che usiamo il termine democrazia in modo ambiguo. Una società dove si vota è democratica? Basta l’uso del metodo elettorale per definirla tale? Eche succede quando lo scrutinio delle schede porta al governo chi non avremo voluto noi? Come in Palestina, quando vinse Hamas. E in Egitto quando vinsero i Fratelli Musulmani. Oggi al Cairo sosteniamo un generale al quale è stato affidato il compito di togliere di mezzo chi era stato premiato dalle urne.
Se il tecnicismo del voto non s’accompagnaa una società partecipe e matura, dove l’ascensore sociale funziona, la democrazia è una finzione. Per questo non è esportabile.
Allora, che cos’è la Cina, società certamente non democratica, ma dove – pur nei limiti di un miliardo e mezzo di persone– l’ascensore economico e sociale sta funzionando? Meglio il voto manovrato e inconcludente in una società che rimane socialmente arretrata? O una guida politica autoritaria che la fa crescere?
Torna la domanda. Parafrasando Benedetto Croce non possiamo non definirci democratici. Ma se il meccanismo elettorale ha legittimato alla più alta responsabilità di governo la forza politica che ha il sostegno di poco meno del 15% per cento degli aventi diritto, siamo democrazia o siamo un’ex democrazia ormai transitata in altre forme di tipo autocratico, oligarchico o a leaderismo populistico?
Se il tecnicismo del voto non basta, che cos’è democrazia?
Perché in società a storica forma democratica di legittimazione dei governi il sistema deperisce? Perché s’inizia a dubitare, secondo la vecchia definizione di John Dewey, chela cura per le malattie della democrazia è più democrazia. Perché comeFareed Zakaria, finiamo per costatare che le istituzioni più rispettate non sono quelle politiche ma quelle che operano in modo non democratico? Negli USA lui indicava la Corte Suprema, le Forze Armate, il Federal Reserve System. Ma anche in Italia il Presidente della Repubblica è più stimato dei politici eletti direttamente.Resterebbe tale, anche se, come qualcuno auspica, fosse eletto?
Siamo nel tempo post moderno, del turbo capitalismo, dei new media,del tutto digitale. In esso il rapporto tra eletti ed elettori è svaporato nella democrazia distopica dominata dai Moghul dell’informazione. Dove la realtà è surrogata dalla sua rappresentazione. Dove anche la politica, come la merce (buona o avariata che sia), è appannaggio dall’influencer di turno. Che non è, fatte salve le apparenze, molto dissimile da Wanna Marchi, la regina delle televenditedegli anni settanta poi pluricondannata per truffa.
Dove la guerra – in verità sempre luttuosa, criminosa e criminogena – è sottoposta alla cura reputazionale dei servizi d’intelligence per renderla eroica e di liberazione quando sparano le nostre armi.
Come il capitalista da sempre tende al monopolio, in questo tempo, mentre si propaganda la libertà infinitad’Internet, dei social media, della soddisfazione del desiderio individuale, anche la democrazia si piega e converge verso forme populistiche e oligarchiche.
Non possiamo non dirci democratici ma siamo sempre più attratti dalle scorciatoie che da essa ci allontanano: il leader, l’uomo forte, più governo, meno parlamentari e meno Parlamento.
Democrazia è impegno, partecipazione, condivisione, costruzione ordinata della città, rispetto delle altrui diverse convinzioni e fedi. Tutte cose che non crescono nelle dittature ma che anche da noi inaridiscono. La democrazia ha un costo che a volte pensiamo – come per le tasse – non sia giusto e necessario pagare.
Ha ragione Dewey: la malattia va curata. Non basta indulgere alla nostalgia della nostra storia di gloriosa democrazia e ripetere, mente il tempo passa, suonala ancora Sam.
Gian Guido Folloni
28 Agosto 2023