L’insorgenza in Italia,  una storia dimenticata

insorgenti(ASI) Lo scorso 18 gennaio 22, recatomi ad Arezzo per incontrare amici e, salendo lungo Corso Italia, giunto in cima alla via, mentre a sinistra scorgevo la magnifica Cattedrale dove si venera l’immagine della Madonna del Conforto, mi sono imbattuto in una lapide un po’ strana, su un muro a destra e proprio in cima al Corso.

Nella stessa c’era scritto “Passaggio 6 maggio 1799”. Non una parola in più. Non avevo mai visto un’indicazione del genere. Perché “passaggio”, un termine che è stato scelto come se si volesse alludere ad una “via”, ma, come con uno strano “pudore”, cioèalludendo a una via, ma poi ridimensionandone l’enunciato ? Strano, mi sono detto. E cosa significava quella data senza una qualche indicazione di contorno ?

Cos’era successo quel 6 maggio 1799, un giorno non lontano da quello del miracolo della Madonna così venerata ad Arezzo, il 15 febbraio 1796 ? Ecos’era accaduto quel giorno ? Nell’Ospizio della Grancia, della Congregazione camaldolese si trovava un’annerita immagine della Madonna di Provenzano, appellata “Advocata Nostra”, di Siena, quella la cui festa si celebra in occasione del Palio del 2 luglio. Arezzo era da giorni tormentata da terremoti e un gruppo di fedeli, riuniti in preghiera, perché la città venisse liberata dall’evento sismico, vide all’improvviso la sacra immagine risplendere di un bagliore soprannaturale. Dopo quell’evento, i terremoti cessarono.

 Da allora, quell’icona, per ordine del Vescovo Niccolò Marcacci, fu portata in Cattedrale ed esposta ai continui pellegrinaggi degli aretini.

Fenomeni analoghi si erano verificati anche a Perugia e negli altri territori occupati dai francesi e, da allora, il fenomeno delle “Madonne piangenti” sarebbe stato legato agli eventi del 1796 – 1799.

Era una digressione necessaria. Ovviamente, non prendo posizione sui miracoli. Mi limito a dire che le popolazioni li considerarono tali e ciò stimolò la loro reattività di fronte alla politica dei giacobini.

Torno alla lapide. Per fortuna conosco abbastanza la storia, perché ho memoria e la coltivo. Il passato va conosciuto, mai rimosso.  “Ma certo !” mi sono detto “allude ai – Viva Maria !”, agli insorti antigiacobini di Arezzo e contado, appunto del 6 maggio 1799 che si sollevarono contro l’occupazione francese e che conquistarono la Toscana e anche Perugia ed altre zone, seguendo, con maggiori mezzi ed organizzazione, l’esempio degli sparuti, ma rudi e determinati predecessori che, un anno prima, dettero filo da torcere agli stessi giacobini, appiccando l’incendio della “contro-rivoluzione” a Castel Rigone e Città di Castello, dove fu massacrata la guarnigione francese e giungendo a far tremare Perugia, circondandola interamente e terrorizzandola con fuochi e con il suono incessante delle campane a  martello e  dei tamburi e con grida non propriamente gentili e rassicuranti. E quegli insorti, dovunque si mossero, lo fecero, è innegabile, come per rispondere ad un messaggio che veniva dalle tante immagini mariane che costellano specialmente la Toscana e l’odierna Umbria.

Sono fatto così. Cerco sempre i luoghi dove si è scritta la storia, prescindendo, in toto, da censure ideologiche che non m’interessano. Così ho fatto, nella mia vita, nella Piazza Rossa, a Mosca, nel mausoleo dove riposa quel “piccolo, grande uomo” che fu Vladimir Ilich Ulianov, detto Lenin, o a Leningrado, così si chiamava, nell’incrociatore “Avrora”, ma anche a Montejurra, la montagna sacra carlista o di fronte alle tombe di Franco e José Antonio Primo de Rivera, nel Valle (si dice così, al maschile) de los Caidos e così via. Sono luoghi che hanno fatto la storia.

E allora come potevo ignorare quel luogo, così vicino a Perugia e così legato alla sua storia, o meglio, a quella del suo contado, come la lapide in cima a Corso Italia, ad Arezzo ? Dietro questi due luoghi ci stanno la Madonna del Conforto e, perché no ?, la Madonna delle Grazie che anch’essa fa bella mostra di sé nellacattedrale di Perugia.

E allora, bando a questa curiosa ritrosia, a questa censura ideologica che non può negare un fatto storico così rilevante come il fenomeno contro-rivoluzionario aretino ma che, nel contempo, cerca di smorzarlo e neutralizzarlo, dicendo e non dicendo…

Il passato non si cancella. Certo, si può e si deve interpretare e si possono avere opinioni diverse, ma negarlo non si può. Nel modo più assoluto. I fatti non si possono negare.

La “Rivoluzione francese” contro cui insorsero gli aretini e i loro predecessori del Dipartimento del Trasimeno, ha, purtroppo, inaugurato il triste fenomeno delle “guerre civili” permanenti, in Europa e questa censura è, in qualche modo, ad essa riconducibile.

 Poco prima dell’instaurazione del “Terrore”, il 5 settembre 1793, in seguito alla costituzione civile del clero e alla coscrizione militare obbligatoria, nel marzo dello stesso anno, i dipartimenti occidentali della Francia, cioè la Vandea, Deux Sèvres, Maine – et – Loire e Loira inferiore, tutti fortemente cattolici e tradizionalisti e permeati dell’apostolato di San Luigi Maria Grignion de Montfort, terziario domenicano,si sollevarono e costituirono l’Armée catholique et royale, che arrivò a contare fino a 20.000 uomini circa e a costituire, in più occasioni, ripetutesi nel tempo, un serio problema per la Francia rivoluzionaria.

La rivoluzione, cioè la rifondazione della società politica, prescindendo da Dio e dalla creazione, in nome di una concezione totalmente astratta dell’individuo, che, con il suo volontarismo cieco, doveva divenire arbitro dei destini dell’umanità attraverso l’affermazione di una libertà senza contenuto e limiti, sarebbe stata, a sua volta, esportata al di fuori della Francia, con violenza e disprezzo verso il mondo tradizionale a cui erano legate le popolazioni europee.

Lo schema era, infatti, quello che due secoli dopo, nella Russia bolscevica, Trotsky avrebbe imposto con la sua rivoluzione permanente e anche in Russia, a questa fase delirante sarebbe seguita una fase più realistica e prudenziale, quella stalinista , la versione bolscevica del bonapartismo.

Le armate rivoluzionarie attaccarono nel 1796 l’Italia e in particolare la Lombardia che, con in testa Binasco, si sollevò interamente, con l’eccezione di Cremona. L’anno dopo colpirono il Veneto e, in particolare, Verona, durante la Pasqua. 

 L’anno successivo, in seguito alla proclamazione della Repubblica a Bergamo e Brescia, le insorgenze si estesero, concentrandosi nella Val Trompia e nei trentaquattro comuni della Riviera di Salò, che, dopo la resa di tale centro, conseguente a violenti scontri, fu sciolta d’autorità dai giacobini. La guerra civile, ormai così va denominata, si estese alla Valtellina che nel 1798 vide affermarsi un violento moto controrivoluzionario.

        Le rivolte si estesero al territorio di Modena e a Bologna, dove la popolazione insorse contro i divieti delle processioni e manifestazione religiose, specie in occasione del Corpus Domini.

Poi, il moto si estese alle legazioni di Ferrara e Ravenna e, infine, il 15 febbraio 1798, a Roma, i Francesi dichiararono decaduto il Papa Pio VI e proclamarono la Repubblica Romana che, in breve, si impadronì dei territori del Dipartimento del Trasimeno, comprendenti parte dell’odierna “Umbria”.

I giacobini inaugurarono un regime di feroce oppressione soprattutto contro la religione cattolica e le tradizioni popolari dell’area. Mentre la nobiltà e i ceti popolari, specie contadini, vennero emarginati e contrastati, perché considerati espressione della Chiesa cattolica, la borghesia divenne il ceto dominante su cui fecero affidamento i rivoluzionari.

Il 16 aprile 1798, lunedì dopo la Pasqua, che cadeva l’8, i controrivoluzionari entrarono a Città di Castello e abbatterono l’”albero della libertà”, piantato dai rivoluzionari. Si susseguirono aspri scontri con la popolazione e, nei giorni successivi, il Tevere trasportò i cadaveri dei militari giacobini.

Il successivo 22 aprile, domenica “in albis”, all’uscita dalla Messa, in seguito ad un atto di prepotenza antireligiosa del capo della municipalità, il possidente Guerriero Guerrieri, la popolazione di Castel Rigone insorse e, al comando del famoso contrabbandiere “Broncolo”, conquistò i centri vicini e arrivò a circondare Perugia, la capitale del Dipartimento.

È   interessante notare che, mentre allora, i popolani dell’area del Trasimeno e dell’Alta valle del Tevere erano “a destra”, contro i borghesi e i possidenti, che si trovavano coi giacobini, cioè “a sinistra”, all’incirca due secoli dopo, le parti si invertirono e, mentre i primi si volsero verso i partiti socialisti e comunisti, i secondi divennero “moderati” e conservatori. Erano le due parti contrapposte dell’istituto mezzadrile.

I militari francesi riprendono, nel corso del mese di maggio, il controllo dei territori del Dipartimento, dando vita ad una violenta repressione ma provocando anche l’unione degli insorti perugini e altotiberini con i controrivoluzionari aretini, che accolsero e aiutarono i primi, in fuga dalla repressione giacobina e questo rapporto avrebbe favorito la successiva insurrezione aretina del 1799.

Già, perché il 25 marzo 1799 le truppe francesi entrano a Firenze costringendo all’esilio il granduca Ferdinando III e occupando l’intera Toscana.

Il 6 aprile, i francesi entrano ad Arezzo ma le loro forze non sono sufficienti. La città è in fermento, ancora toccata dal miracolo della Madonna del Conforto, del 1796.

Un mese dopo, proprio il 6 maggio, Arezzo insorge ma, questa volta, i capi dell’insurrezione non sono i popolani di Città di Castello e di Castel Rigone. Stavolta, a guidare la controrivoluzione ci sono il barone Carlo Albergotti Siri, il vecchio ufficiale della marina granducale, cavaliere Angelo Guillichini, che è il comandante militare degli insorti e il marchese Giovanni Battista Albergotti, cavaliere dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme. Nel giro di alcune settimane, la rivolta, estesasi in tutta la Toscana, ottiene addirittura l’appoggio dell’impero d’Austria, della Russia e del Regno d’Inghilterra.

Un forte contingente di aretini, a cui si uniscono reparti dell’area del Trasimeno e dell’Alta valle del Tevere, penetra a Perugia nella notte tra il 3 e il 4 agosto. Tra i perugini che si arruolano nelle fila dell’”Armata austro russo aretina”, c’è, tra gli altri, il capitano Pietro Vermiglioli.

Dopo un lungo assedio, il 31 agosto, si arrende l’ultimo baluardo giacobino, nella Rocca Paolina e i prigionieri vengono tradotti, tra due ali di folla che li ricoprono di fischi, fino all’accampamento aretino, in Pian di Massiano. Tra i prigionieri, quello fatto oggetto di maggiore ostilità dai perugini, già insorti autonomamente prima del 31 agosto, vi è lo sconsolato abate cistercense Pietro Tornera, esponente del giansenismo locale.

In quel triennio, le popolazioni dell’Italia centrale investite dall’attacco giacobino, reagirono all’imposizione di un modello culturale e politico che escludeva la religione dall’orizzonte civile.

Altri “giacobini” sarebbero sopraggiunti dopo quel 1799 e sappiamo com’è andata a finire, ma l’impresa dei popolani di Castel Rigone e Città di Castello e quella, ben più organizzata, di Arezzo, non può essere dimenticata.

Aiutiamo così anche noi a ricordare cosa significa quella semplice data “6 maggio 1799”, nei pressi della Cattedrale dove si venera la “Madonna del Conforto”.

Giuliano Mignini per Agenzia Stampa Italia

 

 

Fonte foto Unknown author, Public domain, via Wikimedia Commons

                                                             

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