(ASI) Con un’articolata sentenza del 19 febbraio 2019, il Tribunale di Lecco si è pronunciato sulla spinosa questione dei danni provocati dal mancato consenso, o meglio, se tali danni siano ammissibili anche quando non sia riscontrabile l’errore da parte dei sanitari e quale metodologia probatoria essi richiedano.
Il fatto originava dalla richiesta di ristoro che un medico ginecologo rivolgeva alla struttura presso la quale subiva un intervento di cardio chirurgia valvolare, senza essere ben informato delle possibili conseguenze, anche in caso di corretta esecuzione.
L’operazione, che in seguito ad accertamento peritale risultava essere stata ben eseguita, comportava purtroppo delle gravi conseguenze permanenti per il sanitario, che decideva di adire il giudice anche per non aver ricevuto tutte le informazioni del caso concreto dai sanitari, anche in merito alle normali complicanze che possono derivare da questo tipo di interventi.
L’azienda ospedaliera, con la propria costituzione in giudizio, contestava radicalmente tutte le richieste dell’attore e prendeva posizione sulle due principali questioni facendo valere la corretta esecuzione dell’intervento e l’esaustività del corredo informativo al paziente, anche se, come emergeva nel corso del giudizio, le informazioni circa i possibili esiti infausti venivano forniti soltanto oralmente.
Emergeva chiaramente che la questione più scottante riguarda la risarcibilità dei danni per il semplice fatto che il paziente non venga correttamente messo al corrente di tutte le possibili conseguenze, anche quando il medico non sbaglia e interviene correttamente.
Il Giudice condannava l’Azienda ospedaliera a pagare € 10.000 a titolo di risarcimento del danno patrimoniale per aver violato gli obblighi relativi al consenso informato e negava il risarcimento per l’invalidità permanente, con importanti riflessi nella vita personale e patrimoniale del soggetto, in quanto, dall’istruttoria non emergevano responsabilità degli operatori, dato l’embolia gassosa che colpiva il malcapitato, integrava l’ipotesi della complicanza incolpevole.
Il Tribunale di Lecco sottolineava, infatti, che informare il paziente ed eseguire correttamente l’operazione sono due attività volte a tutelare due diversi beni giuridici, entrambi meritevoli di tutela, ma soggetti a due diversi regimi di protezione.
La prima tende a consentire che la persona bisognevole di cure conosca il trattamento cui va incontro, le conseguenze che ne possano derivare anche senza colpa degli operatori e possa così autodeterminarsi a sottoporsi a quella precisa terapia o meno, presso quella struttura o presso altra, non ultimo a scegliere il momento, qualora non sussistano elementi di gravità ed urgenza.
La seconda mira a proteggere la salute del cittadino, come previsto dall’art. 32 della Carta Costituzionale, e persegue il diritto a vedersi risarciti qualora i medici o la struttura, per colpa, declinata nelle classiche componenti della negligenza, dell’imperizia, dell’imprudenza, o inosservanza delle leggi, ordini o disciplina, producano dei danni.
Un paziente che viene correttamente messo al corrente di tutti i possibili esiti di un intervento potrebbe decidere, a questo punto consapevolmente, di esservi sottoposto oppure di rivolgersi ad altra struttura o di attendere un altro momento (come per esempio dopo la pensione, per non rischiare di compromettere la propria attività professionale).
Il Giudice lecchese affronta, a questo punto, il punctum dolens dell’intera vicenda. Come va provato il mancato consenso informato? O meglio, una volta accertato che il paziente non venne correttamente messo al corrente di tutti i possibili esiti, in quale modo deve dimostrare il danno? La questione pur non essendo di facile soluzione, presenta delle peculiarità dovute al caso concreto. In effetti nella fattispecie in esame, nel corso del giudizio è stato accertato che il ginecologo non venne informato e che, in seguito al trattamento, correttamente eseguito, subì gravi danni menomanti. Orbene siamo in presenza di due elementi oggettivi e certi, che hanno portato il Giudicante ad orientarsi, in linea con la giurisprudenza di legittimità, per la netta distinzione tra danno evento, integrato dall’omissione informativa e danno conseguenza, integrato dalla sofferenza di non aver potuto scegliere se sottoporsi o meno al trattamento, non potendo effettuare un consapevole bilanciamento tra le condizioni pre-intervento e i rischi da assumersi per affrontare la terapia.
In conclusione possiamo affermare che, nel caso in cui l’intervento riesca e incolpevolmente ne derivino conseguenze nefaste, non è necessario dimostrare con altre prove di aver subito un danno all’autodeterminazione, in quanto, secondo il Tribunale di Lecco, accertare la condotta omissiva di non aver informato e l’invalidità permanente derivata costituiscono già la prova del danno evento e del danno conseguenza, avendo privato il soggetto passivo della possibilità di scegliere e/o di prepararsi al peggio.
Francesco Maiorca – Agenzia Stampa Italia