(ASI) Abbiamo incontrato Jean Toschi Marrazzani Visconti, autrice de “La porta d’ingresso dell’Islam. Bosnia-Erzegovina: un Paese ingovernabile”, di recente edito dalla Zambon, con la quale abbiamo parlato del suo ultimo libro e approfondito la questione legata ai Balcani. Nel corso della chiacchierata abbiamo ripercorso la storia della regione e smentito anche alcune verità ormai date per acquisite dai media mondiali, come quella relativa al “genocidio” operato dai serbi a Srebenica.
Qual è l’attuale situazione della ex Jugoslavia?
Le repubbliche della ex Federazione Socialista di Jugoslavia vivono dalla separazione una vita indipendente, non sempre facile. La Slovenia di cultura mitteleuropea si é sempre distinta dagli altri contesti balcanici, oggi é membro dell’Unione Europea e deve vedersela con i parametri di Bruxelles e con la crisi europea. La Croazia è da poco entrata nell’Unione Europea, patisce per le regole imposte dall’Europa, deve fronteggiare una notevole disoccupazione che aizza il fuoco di un nazionalismo estremo e razzista. La Bosnia Erzegovina, divisa fra la Federazione croata- musulmana e la Republika Srpska è di fatto ingovernabile. Questo perché - secondo quanto stabilito dal Trattato di Dayton - i presidenti e i premier delle tre etnie si alternano ogni otto mesi rendendo impossibile una continuità di indirizzo nell’amministrazione del Paese. I croati vorrebbero una Erzegovina completamente indipendente. Il territorio serbo, più compatto e organizzato, soffre l’interruzione della sua crescita interna dovuta alla crisi economica e subisce la pressione occidentale per i presunti crimini commessi, perché si risolva a rinunciare alla propria gestione amministrativa indipendente cedendo queste prerogative a Sarajevo. Ovviamente questa centralizzazione imposta non soddisfa neanche i croati, membri minori e insoddisfatti della Federazione croata-musulmana. La popolazione cristiana del paese - il 55 per cento fra cattolici e ortodossi – dal canto suo, seguita a temere il desiderio del defunto presidente musulmano, Alija Izetbegović, di trasformare la Bosnia Erzegovina in uno Stato musulmano dalla Croazia al fiume Drina, possa essere realizzato dalle frange più estremiste, aiutate e finanziate da ONG turche, iraniane e arabe. La situazione della Serbia resta tuttora irrisolta: l’Europa spinge perché il governo serbo riconosca l’antica regione serba, il Kosovo, come Stato indipendente, con la minaccia di subire anche il distacco della Vojvodina e del Sangiaccato pena il protrarsi della non-ammissione della Serbia nell’UE. Il Kosovo è ormai depurato di qualsiasi altra etnia, luogo di traffici incontrollati ha stabilito una specie di Shengen con l’Albania. Il Montenegro, seicento mila abitanti, ha l’ambizione di diventare la Montecarlo dell’Adriatico, in realtà è centro di dubbie operazioni. La Macedonia si trova in condizioni precarie sotto la spinta irredentista degli albanesi kosovari. Malgrado questi contrasti, tutte le repubbliche ex jugoslave partecipano ai war games della Nato.
Come nasce il suo ultimo libro?
L’idea è nata nel 2013, quando ho voluto ripetere in automobile il percorso che avevo fatto tante volte durante la guerra per andare verso Banja Luka e la Kraijna. Desideravo vedere cosa era cambiato e come. Ho guidato per il corridoio, quella zona vicina alla città di Brčko, dove si passava a poche centinaia di metri dal fronte croato e da quello musulmano. Un’esperienza molto forte che avevo descritto nel mio libro Il Corridoio (La città del sole, 2005).
Ovviamente questa volta tutto era ricostruito, apparentemente normale, quasi idilliaco finché ho iniziato a parlare con la gente e mi sono resa conto che esistono fratture profonde fra le varie etnie e un odio maggiore che in guerra. A quasi venti anni dal Trattato di Dayton molte cose sono irrisolte e le popolazioni vivono una situazione di disagio, aumentata dalla crisi internazionale. Mi hanno proposto di intervistare il Presidente serbo Milorad Dodik, a quel punto ho pensato di mettere insieme una serie d’interviste per capire, da chi gestisce la politica locale e internazionale, cosa succede dopo un ventennio di gestione euro-americana nella Bosnia-Erzegovina.
Nel suo libro parla della cosiddetta “dorsale verde”. Può spiegarci brevemente di cosa si tratta?
Verde è il colore dell’Islam. La dorsale verde è quella linea ideale che unisce alla Turchia diverse zone dei Balcani a prevalenza musulmana, dalla Bosnia-Erzegovina alla regione serba del Sangiaccato, proseguendo per il Kosovo, l’Albania, la Macedonia. Queste aree guardano alla Turchia come a una fonte d’ispirazione, finanziamenti e lavoro, si riconoscono nella sua cultura, piuttosto che in quella dell’Europa, alla quale appartengono geograficamente.
Secondo lei perché la Bosnia-Erzegovina sta diventando una sorta di enclave musulmana nel cuore dell’Europa?
Quando nel 1991 il presidente musulmano Alija Izetbegović si recò per consiglio e supporto in Iran, chiese oltre ad aiuti economici un allargamento dei legami culturali e religiosi, includendo l’istruzione dei musulmani jugoslavi, all’epoca in maggioranza laici. La sua richiesta è stata soddisfatta con l’arrivo di finanziamenti che oggi vanno principalmente alla costruzione di moschee e all’apertura di madrasse, più che per creare lavoro in una zona dove le fabbriche sono distrutte o svendute o ferme per cattiva conduzione. La disoccupazione e la povertà hanno incoraggiato i giovani a frequentare le scuole coraniche che forniscono loro un modo di sopravvivere. Molti di loro, sempre con finanziamenti esterni al paese, si riuniscono, acquistano villaggi in rovina, li ricostruiscono e ci si insediano per vivere secondo le più strette regole islamiche che, però, permettono loro di avere più mogli e un notevole numero di figli, volutamente ignorando la Costituzione bosniaca che non ammette la poligamia.
Inoltre esiste una forte pressione da parte occidentale perché la Erzegovina e la Republika Srpska rinunzino alle loro indipendenze amministrative per concentrare ogni prerogativa di governo a Sarajevo, con un evidente tentativo di superare le dispositive del Trattato di Dayton.
In merito agli episodi di Srebenica, la sua ricostruzione si discosta da quella ufficiale. Ci può ricordare i motivi che motivano la sua posizione?
Più che la ricostruzione degli avvenimenti, cerco di pormi dei quesiti nati dalla discordanza del racconto ufficiale con alcune testimonianze locali. I miei dubbi nascono dalla conoscenza del territorio, dalla lettura di molti documenti e dalle mie esperienze sul luogo.
Nel maggio 1993, ad esempio, mi ero trovata a passare per la regione di Srebrenica in direzione di Bratunac, sul fiume Drina, per rientrare a Belgrado. Il percorso era disseminato di villaggi in rovina, in particolare, dopo aver superato Nova Kasaba sono arrivata a un villaggio in fiamme, dove sostavano dei soldati della Drina Corps. Ho chiesto all’autista di informarsi, così ho saputo che il villaggio era serbo ed era stato da poco attaccato dalla 28ma Legione musulmana di stanza a Srebrenica, città UNPA (Area Protetta delle Nazioni Unite). Vi erano stati molti morti. La città di Bratunac era piena di rifugiati dalle campagne, fuggiti per evitare i raid musulmani. Ogni palo, ogni muro era coperto di annunci listati di nero, a centinaia, che ricordavano la morte di qualcuno. Arrivata a Zvornik, dove si attraversa il ponte per la Serbia, le sepolture improvvisate erano dappertutto fino al selciato stradale.
Effettivamente, in quell’area dal 1992 al 1995 sono stati uccisi 3283 civili serbi documentati. (si veda Srebrenica di Alexander Dorin e Zoran Jovanović, Zambon Editore, 2012 a pag. 33 foto e a pagina 121 elenco dei nomi delle vittime).
E questo, eventualmente, avrebbe potuto essere stata la leva per delle vendette personali, i soldati del Drina Corps erano in buona parte oriundi della regione e quindi imparentati con le vittime.
Questo fatto viene sistematicamente ignorato, mentre è stato ampiamente comunicato quello che ha coinvolto i musulmani (serbi convertiti) di cui, però non si trova documentazione.
Quando, nel luglio 1995, a pochi giorni dai fatti, è uscita sui media la notizia del dramma di Srebrenica, si é parlato subito, a grandi lettere, di genocidio, mi sono chiesta allora come mai si stabilisse senza indagini e così velocemente la tipologia del crimine.
A Versailles nel 1918, per evidenti ragioni politiche, l’eccidio di un milione e mezzo di armeni da parte dei giovani turchi, era stato declassato a trecentomila e il genocidio dichiarato nullo e non avvenuto. Solo oggi, dopo cento anni, inizia ad essere riconosciuto come tale.
Sempre per oscure ragioni politiche non c’è riconoscimento, invece, per Jasenovac, il campo di sterminio croato che dal 1941 al 1945 ha prodotto quasi un milione di vittime fra donne, uomini e bambini serbi, ebrei e rom. ( Sono membro della Commissione Internazionale del campo)
Un’altra domanda mi sono posta: come era possibile giustiziare ottomila soldati in battaglia, combattendo rabbiosamente su un terreno impervio, minato, fra sottobosco e alberi. L’accusa ufficiale fatta ai serbi, invece, é di aver selezionato in città gli uomini dalle donne e i bambini e aver giustiziato 8000 uomini. Questo non compare nei rapporti degli olandesi del UNPROFOR. A donne e bambini e anziani era stata data la possibilità di scegliere se restare a Srebrenica o partire per la zona musulmana e coloro che avevano deciso per la partenza erano stati portati in salvo con autobus a Potočari in territorio musulmano. In un cablogramma riservato, inviato al Comando centrale di Sarajevo, i militari accerchiati di Srebrenica comunicarono l’evacuazione dei civili felicemente avvenuta senza perdite e affermavano adesso cerchiamo noi di rompere l’accerchiamento armi alla mano.
Per genocidio normalmente si intende l’intenzione di eliminare un’intera popolazione. In questo caso le vittime sarebbero esclusivamente uomini in età militare. E’ vero che il Tribunale dell’Aja ha emesso una sentenza specifica durante il processo del generale Radislav Krstić, comandante del Drina Corps: si tratta di genocidio quando si uccidono i componenti di un gruppo etnico con l’obbiettivo di diminuirne un giorno la popolazione, rendendo quel gruppo non più visibile in quell’area.
I miei dubbi sono stati dettati anche dal fatto che nessuno ha mai potuto partecipare alle inchieste medico-legali svolte in assoluta segretezza, nemmeno gli avvocati di coloro accusati del crimine. Quando il Parlamento europeo ha decretato che Srebrenica é stato un genocidio, automaticamente mi sono chiesta cosa si nascondesse dietro questo dogma. Non penso sia sbagliato porsi delle domande in un’Europa democratica.
L’abbiamo visto in questi giorni come si ribalta la storia. Mi riferisco alla Commissione britannica che ha accusato l’ex premier Tony Blair di aver commesso un crimine, ordinando l’invasione dell’Iraq nel 2003 a fianco degli Stati Uniti, sulla base di notizie false.
Perché la Serbia è diventato di fatto l’unico paese responsabile della guerra nella ex Jugoslavia?
Perché i serbi hanno perso la guerra mediatica e non avevano padrini potenti alle spalle. Ricordo l’intervista che il giornalista Jacques Merlino ha fatto nel 1993 a James Arf, allora direttore dell’agenzia di comunicazione Ruder&Finn Global Affairs che aveva curato l‘immagine della Croazia, dei Musulmani di Bosnia e dei Kosovari albanesi, autore del libro Le verità jugoslave non sono tutte belle da raccontare (Albin Michel, 1993). Ne faccio un breve riassunto:
Fra il 2 e il 5 agosto 1992, il Newsday (pag.129) é uscito con la notizia dei campi. Abbiamo afferrato la cosa al volo e immediatamente abbiamo messo in contatto tre grandi organizzazioni ebraiche; l'entrata in gioco delle organizzazioni ebraiche a fianco dei bosniaci fu uno straordinario colpo di poker. Allo stesso tempo abbiamo potuto far coincidere nell'opinione pubblica serbi con nazisti. Il nostro lavoro non é di verificare l'informazione. Il nostro mestiere é di disseminare le informazioni, farle circolare il più velocemente possibile Quando un'informazione é buona per noi,dobbiamo ancorarla subito nell'opinione pubblica. Perché sappiamo molto bene che é la prima notizia che conta. Le smentite non hanno alcuna efficacia. Non siamo pagati per fare della morale. E anche quando questa fosse messa in discussione, avremmo la coscienza tranquilla. Se lei intende provare che i serbi sono delle povere vittime, vada avanti, si troverà solo.
Secondo lei fra dieci anni cosa sarà dei paesi nati dalla dissoluzione della Jugoslavia?
Il futuro non dipende da loro. Come nel XIX secolo, i Balcani sono ancora la scacchiera sulla quale giocano i grandi poteri. Con la speranza che le zone calde, come la Bosnia Erzegovina e la Macedonia, non scoppino, in quel caso sarà perché qualcuno lo ha permesso. Lo statu quo è forse auspicabile.
J. Toschi Marazzani Visconti “La porta d’ingresso dell’Islam – Bosnia Erzegovina: un paese ingovernabile”, prefazione di Paolo Borgognone, postfazione di Manlio Dinucci, Zambon, pagg. 306, €18,00
Fabrizio Di Ernesto - Agenzia Stampa Italia