ANVUR, VQR, abusi: la "riforma universitaria" nella Storia della II Repubblica

(ASI) La battaglia per gli scatti stipendiali negati sta ottenendo nuovi successi: è in corso una trattativa avviata dal ministro Giannini con la Crui, che a sua volta risente della protesta dal basso di sempre più numerosi colleghi, negli organi collegiali e in assemblee ad hoc di riflessione e di protesta. Il merito di quanti si sono

impegnati in prima linea, a cominciare dal collega Ferraro, è indubitabile: tuttavia credo sarebbe utile, se non necessario, cominciare a agire in termini anche politici (ovvero politico-culturali) su quello che è piovuto addosso alle università negli ultimi due decenni.
Un primo aspetto è quello della cosiddetta ‘autonomia’ universitaria di cui alla riforma Luigi Berlinguer degli anni Novanta: autonomia è una parola magica che sembrerebbe nobilitare la nostra condizione di docenti rispettosi dei valori di libertà garantiti dagli art. 21 e 33 della Costituzione. Ma non è così, anzi – come nel caso dell’autonomia della Banca d’Italia rivendicata da Carli in un libro-intervista a Scalfari nella seconda metà degli anni Settanta – è una parola-imbroglio. Nel caso della Banca centrale, la rivendicazione dell’autonomia fu un primo colpo mediatico al controllo statale dell’emissione monetaria, culminato nella privatizzazione della BdI nel 1992. Da cui anche un minore controllo sulle banche private con connessi scandali ai danni dei piccoli risparmiatori.
Anche dietro l’autonomia universitaria sono state e sono nascoste due derive pericolose, che vanno nella stessa direzione: la prima è la sempre più marcata privatizzazione dei finanziamenti universitari, vale a dire l’abbandono da parte dello Stato dell’istituzione universitaria, che dunque deve andare alla caccia spasmodica di introiti alternativi nel settore privato per poter tirare avanti, fino a diventare succube delle locali banche e delle industrie private. Nessuno snobismo intellettuale in questa mia critica, ma semplicemente la rivendicazione che la difesa della stessa libertà di impresa e del suo diritto allo sviluppo, richiede una dialettica e non una subordinazione totale della ricerca universitaria, e non puo’ tradursi nella scomparsa tout court della ricerca umanistica. L’homo economicus non basta. O non esiste una etica di impresa di cui furono maestri Mattei e Olivetti?

La seconda deriva è che dietro la magica autonomia si diffondono, per dirla con un eufemismo, libere “interpretazioni” della normativa universitaria nazionale onde per cui Rettori e Presidi, massoni o no, fanno letteralmente quello che gli pare e piace. Cito due casi: a La Sapienza un Rettore, pur di contrastare un suo nemico dichiarato, ha preteso che il Senato accademico prendesse in esame il conferimento del titolo di emerito al collega “irrispettoso”, in violazione della precisa normativa sulla questione. E’ il Consiglio di Facoltà (o di Dipartimento) l’organo decisore, non il Senato accademico: e dalla Facoltà le carte arrivano ‘direttamente’ - senza cioè ulteriori valutazioni interne - sul tavolo del ministro. Il collega ha dovuto fare un ricorso al TAR, e l’ha vinto: ma perché ha dovuto spendere tempo e energie dopo il voto unanime della Facoltà che aveva essa proposto il titolo di emerito per lui? E quanti rinunciano al ricorso, che è sempre un’alea a rischio? Il secondo esempio riguarda un’altra università che conosco bene: due delibere dello stesso organo collegiale in una stessa riunione, la seconda a sconfessione della prima, cosicché è lecito per me dedurre – conoscendo il caso - che il primo dei due documenti fosse un falso uscito fuori chissà come. Ecco l’esito di tanta ‘autonomia’: l’abuso, in tanti rivoli da rischiare di formare alla fine un torrente in piena.

Passiamo ora al secondo aspetto che ha destabilizzato il sistema universitario e i suoi principi fondativi: l’ANVUR e i suoi metodi di valutazione finto-oggettivi, in realtà tra l’astruso e il truffaldino. Pensiamo a una commissione di concorso vecchia maniera, e a quel che accade oggi: un tempo i commissari di esami erano, come quelli di oggi, più o meno onesti, più o meno professionali, più o meno tifosi del loro candidato. Ma erano dotati di una forte e sostanziale autonomia nell’esercizio del loro ruolo, nel bene e nel male; e peraltro badavano soprattutto ai contenuti di una pubblicazione, anche se non potevano non considerare la differenza tra un libro dato alle stampe da una prestigiosa casa editrice straniera – tale per il suo curriculum pluriennale o pluridecennale e la sua rete di autori – e un saggio pubblicato in proprio da un partecipante al concorso che stavano gestendo. Nel dipanarsi di questa prassi valutativa si potevano poi compiere i noti illeciti, come le trattative sotterranee, scambi di favori e roba simile. “Corruzione”: se si vuole, uno scenario simile a quello di Tangentopoli, perché i docenti universitari essendo “fannulloni” e pensando solo ai soldi, finiscono gioco forza per essere anche corrotti. In realtà questa è stata ed è una demonizzazione criminale e idiota della docenza universitaria da dare in pasto al popolo bue, come fatto appunto con l’operazione Mani Pulite. Sarebbe bastato, con le leggi già esistenti, controllare l’effettivo
impegno didattico e di ricerca del docente per correggere le irregolarità, e invece si è preferito introdurre metodi di schiavizzazione della categoria, come del resto accade anche per altri ordini professionali, vedi i giornalisti e gli avvocati.

Invero, come con Tangentopoli la lotta alla corruzione è stata usata a fini politici per distruggere un intero sistema politico-istituzionale, con i risultati mirabolanti che tutti oggi vediamo in termini economici e di dignità nazionale, così i limitati casi di corruzione e di mancata trasparenza nel mondo universitario, e quelli più diffusi di lassismo del mondo accademico, sono stati strumentalizzati per imporre forme di controllo ossessivo che hanno finito per trasformare i docenti in burocrati del sapere al servizio delle direttive europee e delle nuove ideologie post-ideologiche dominanti.
Gli strumenti principali di questa deriva problematica sono tre, e sono tutti nelle mani dell’ANVUR attraverso la cosiddetta VQR: il primo è l’introduzione di una pazzesca graduatoria dei luoghi delle pubblicazioni, simboleggiata soprattutto –lasciando stare eventuali i problemi di coloro che vorrebbero creare nuove case editrici, come tali prive di una certificazione ministeriale – la divisione delle riviste in classe A e B, distinzione fatta spesso – come sanno le vittime di questo sopruso – sulla base di vendette personali o di pregiudizi ideologici, attraverso cioè il trasferimento di quel vizio e abuso che un tempo si poteva individuare nella micro-valutazione della singola commissione di concorso, in un una prassi corruttrice imposta per legge, e di valenza generale. Ricorsi al Tar e improvvisi depennamenti dalla lista A di riviste con comitati scientifici autorevoli, hanno portato alla luce casi aberranti, che hanno visto i burocrati nominati dal MIUR vendicarsi di colleghi nemici, con una misura, ripeto, non ad hoc e ad temporem (lo sgarbo-vendetta nel microcosmo della Commissione, che penalizzava questo o quel candidato e il prof che lo sosteneva) ma risolutiva e generale: il docenticidio del collega nemico, da distruggere per sempre e non da sconfiggere quando capita a tiro. Pazzesco.

Il secondo strumento, altrettanto micidiale e a mio avviso incostituzionale, è costituito dall’anonimato dei valutatori scelti non si sa come, visto che anche l’eventuale sorteggio avviene all’oscuro di qualsiasi testimone terzo. Anonimato non solo in entrata – come giusto - ma anche in uscita, cioè a valutazione conclusa, secondo una prassi che quanto meno deresponsabilizza il collega valutatore, cosciente che il suo lavoro frettoloso resterà sconosciuto (sì, è possibile venirlo a sapere in via informale, ma senza strumenti giuridici per un ricorso contro la valutazione compiuta), e anzi, volendo essere maliziosi, puo’ essere (ab)usata a fini di vendetta personale.
A me è così capitato che un mio libro, L’Africa alla periferia della storia, prefazione della africanista di fama mondiale Catherine Coquery Vidrovitch, primo saggio africanista italiano ad essere tradotto all’estero, recensioni positive su riviste specializzate in Italia, in Francia, in Spagna, nel Canada, citato nel Dizionario storiografico Mondadori, pubblicato per la prima volta in un’epoca in cui circolavano anche nell’editoria e nei media molti miti positivi dell’Africa (alcuni assurdi: per l’autorevolissimo Basil Davidson, l’Africa senza scrittura era paragonabile all’Europa analfabeta di epoca medievale, come se l’assenza totale di scrittura fosse la stessa cosa di un analfabetismo che presuppone la conquista culturale della scrittura) è stato valutato dalla VQR 8, o qualcosa di simile, cioè ‘sufficiente’. Chi sono i due imbecilli di cui al video del dio ANVUR? Quanti casi come questo mio ci sono stati? Fossero anche poche decine o poche centinaia, la violazione della legge sulla trasparenza è evidente. L’anonimato in uscita va abolito.

Infine, il terzo strumento è (a monte dei due già citati endogeni-‘nazionali’, anche se interni a quel processo di Bologna (1999) che pretende di applicare direttive europee alle tradizioni accademiche nazionali degli Stati membri dell’UE) è costituito dalle banche dati ‘citazionali’. I ‘difetti’ – se non crimini – sono due: il primo riguarda il fatto che gli enti in questione sono stranieri (e neppure europei, ma uno americano e l’altro israeliano) e privati, onde per cui le ‘valutazioni’ che ne derivano, teoricamente affidate a calcolatori elettronici ‘neutrali’, sono al di fuori di ogni controllo. Pazzesco. Sono rimasto stupito nel vedere anni fa che tra le prime università italiane ad accettare l’americana ISI e l’israeliana Scopus come base per la valutazione dei propri docenti e ricercatori, c’era la gloriosa La Sapienza di Roma: poi alcuni fatti mi hanno fatto comprendere come stanno le cose, non solo l’episodio sopracitato del collega emerito di fatto e di diritto alle prese col suo rettore, ma anche la denuncia apparsa anni fa su Il Giornale. Il logo de La Sapienza era un tempo un candido angelo, ma adesso, con un leggero ritocco grafico, è un orrido muso di capra. Dio mio, bastaaa ...

Ma le banche dati di cui sopra presentano un’altra caratteristica: esse pretendono di valutare una pubblicazione non per il contenuto che esprime, l’abc della deontologia accademica, ma in base alle citazioni avute, a loro volta filtrate attraverso l’abusiva classificazione delle riviste e delle case editrici di cui sopra. Un mostruoso meccanismo di sapore chiaramente orwelliano. Le citazioni infatti sono fonte di corruzione – tu mi citi e io ti cito, e non mi cale nulla se hai scritto idiozie o no - e ledono non solo l'autonomia di ogni docente commissario d’esame che si ritrova il piattino semipreparato da ISI e Scopus, ma anche la libertà di insegnamento e di ricerca. Se si va a caccia di citazioni altrui per far carriera - senza possibilità di confronto per difendere le proprie tesi - non ci si deve adeguare all’omologazione dei giudizi?
Forse alcuni colleghi non comprenderanno bene questo ultimo passaggio. Ma il fatto è che la libertà di insegnamento non la si misura nella media ma, come diceva già Stuart Mill, negli estremi rispetto al contesto storico e sociale in cui si opera come docente e ricercatore: chi mai avrebbe “citato” Galileo e Spinoza nel XVII secolo, se non ai rispettivi Tribunali dell’Inquisizione e della Sinagoga? Le banche dati e l’ANVUR rappresentano invero la morte de la ‘sapienza’ potenziale dello studioso, e della laicità vera, sostituiti da una rozzezza e da un laicismo integralista da far paura. Abolire l’ANVUR è, a mio modesto avviso, il diritto-dovere di ogni docente e ricercatore dell’Università italiana.

Prof. Claudio Moffa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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