(ASI) La parata del 9 maggio è un appuntamento classico in Russia. Dal 1945 l'evento celebra il giorno della vittoria dell'Unione Sovietica sulla Germania hitleriana.
Nel corso degli anni, tante cose sono ovviamente cambiate ma a Mosca ed in altre repubbliche ex-sovietiche la popolazione non ha mai rinunciato a ricordare il sacrificio di oltre 26 milioni di uomini e donne, tra civili e militari, caduti dall'avvio dell'Operazione Barbarossa nel giugno 1941 alla presa del Reichstag a Berlino il 2 maggio 1945. Quei quattro drammatici anni hanno lasciato nel Paese tracce incancellabili, riassunte negli occhi sofferenti e nei volti scavati dei veterani, che non possono dimenticare le sofferenze e le atrocità viste o subite.
Negli anni Novanta, Boris Eltsin e la sua cerchia politica avevano marginalizzato la ricorrenza, ridimensionandone il significato storico nel generale (ed innaturale) processo di ribaltamento, secondo i crismi di una radicale damnatio memoriae dove l'avversione per il sistema socialista sovietico aveva assunto le dimensioni di un sentimento anti-nazionale, oltre che anti-comunista. Sin dal suo primo mandato presidenziale, Vladimir Putin ha invece restituito al Den' Pobedi (Giorno della Vittoria) quella forza patriottica che in realtà aveva cominciato a sbiadirsi poco dopo l'inizio della stagnazione.
L'evento di quest'anno è stato preparato nei minimi dettagli. Avrebbe infatti ricordato i 70 anni dalla vittoria dell'Armata Rossa, dovendo così dimostrare che, nonostante le grandi differenze storico-politiche fra passato e presente, quell'unità popolare tra potere politico, lavoratori e Chiesa Ortodossa che aveva resistito all'offensiva tedesca nella Seconda Guerra Mondiale costituisce ancor oggi un riferimento importante, capace di coinvolgere centinaia di migliaia di persone.
La crisi ucraina, scoppiata più di un anno fa, ha amplificato i toni, tornando per un attimo a dividere il mondo in due blocchi. Molti leader politici occidentali avevano già annunciato l'intenzione di voler disertare lo storico appuntamento sulla Piazza Rossa, suscitando la scontata reazione del Cremlino. Stati Uniti, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e molti altri hanno così inteso strumentalizzare la storia per obiettivi geopolitici ben precisi: l'integrazione atlantica dell'Ucraina. Ironia della sorte, o della storia, oggi sono proprio le milizie del Settore Destro (Pravii Sektor), nostalgiche dei collaborazionisti Stepan Bandera e Jaroslav Stetsko, a portare avanti la guerriglia filo-governativa (e filo-occidentale) nella regione del Donbass, dove le locali popolazioni, analogamente a quanto avvenuto in Crimea mesi prima, hanno già scelto massicciamente di separarsi da un Paese che non riconoscono più come rappresentativo delle proprie istanze linguistiche e religiose o che addirittura non hanno mai riconosciuto tale, in virtù del legame culturale esistente tra i territori sud-orientali ucraini (che secoli addietro componevano la regione della Nuova Russia, fondata da Caterina II) e Mosca.
Ad assistere alla sfilata dei reparti e dei mezzi delle Forze Armate della Federazione Russa, seguite per l'occasione dalle guardie d'onore di altri eserciti stranieri, c'erano però tantissimi leader mondiali. In prima fila, alla destra di Vladimir Putin sedevano il presidente cinese Xi Jinping e sua moglie, mentre alla sua sinistra il presidente del Kazakistan Nursultan Nazarbayev, appena rieletto alla guida dell'importantissimo Paese centrasiatico con una schiacciante maggioranza. Si è trattato di un chiaro segnale che il presidente russo ha voluto inviare agli assenti, che va ben oltre la partecipazione all'evento e che include una serie di accordi e intese che renderanno ancor più solidi i legami tra Mosca e Pechino.
L'inclinazione geopolitica della Russia, a dire il vero, è sempre stata bicefala (come l'aquila bizantina che campeggia sullo stemma federale) e segue la sua peculiare natura eurasiatica, fissata dagli scritti di Nikolaj Trubeckoj, Piotr Savickij e Georgij Vernadskij, secondo cui questo vasto Paese non apparterrebbe né all'Occidente né all'Oriente, ma costituirebbe propriamente una forma di civiltà a sé stante che ingloba tutti i popoli stanziati nel gigantesco spazio mediano che separa l'Europa dall'Asia, dove la radice slavo-orientale della Foresta incontra l'elemento turco-mongolo della Steppa. Non va dimenticato nemmeno quel Konstantin Leont'ev che, sebbene nel quadro di un pensiero pesantemente reazionario e tratti visionario, esprimeva in tutta la sua opera l'auspicio che l'Impero degli Zar volgesse il suo sguardo verso Cina ed India, chiudendo il canale verso l'Occidente "spiritualmente corrotto", che Pietro il Grande aveva aperto 150 anni prima.
Anche in epoca sovietica, il marxismo-leninismo adottato ufficialmente dal partito al potere, non poté evitare di modellarsi su vettori culturali, storici e geopolitici che portarono l'URSS a costituire un punto di riferimento per gran parte del mondo slavo di tradizione bizantina e per l'Asia. La controffensiva militare sovietica portò le truppe di Zhukov e Rokossovskij fino a Berlino per neutralizzare definitivamente la minaccia tedesca e costruire un proprio "cordone sanitario", in risposta a quello che gli Stati europei avevano creato contro la Russia bolscevica nel 1919. La Mitteleuropa, già disgregata e destabilizzata dalla logica di Versailles, si divise definitivamente in due parti: una, assorbita dall'Europa occidentale, sotto il controllo anglo-americano; l'altra, risucchiata nell'Europa orientale, sotto il controllo sovietico. Unica eccezione, quella dell'Austria che, per ragioni geopolitiche, rimase territorio neutrale fino ai giorni nostri, proprio come la Finlandia e la Svezia a Nord.
Pochi anni dopo la fine della guerra, l'esplosione rivoluzionaria in Estremo Oriente portò la Cina, il Vietnam e la Corea sotto le bandiere rosse, andando ad aggiungersi così alla Mongolia, già comunista dal 1924, e alle repubbliche popolari dell'Europa orientale. La conferenza di Bandung del 1955 avrebbe poi portato decine di altre nazioni post-coloniali dell'Asia e dell'Africa ad avvicinarsi alla causa di liberazione nazionale ed emancipazione sociale espressa dal governo sovietico. Dopo il trionfo nella Grande Guerra Patriottica, la missione di Mosca diventava così internazionale, ed il Paese che più di ogni altro aveva contribuito alla sconfitta del nazismo e del militarismo nipponico su scala intercontinentale, forniva, agli occhi del mondo in via di sviluppo, ampie garanzie ed aspettative ora che avrebbe dovuto confrontarsi con il nuovo Occidente liberale a guida statunitense. La storia andò diversamente. La Guerra Fredda incartò Mosca in una real-politik più militare che politica e innescò aspre contese con la Cina, malgrado le analogie ideologiche di fondo tra i due Stati.
Eppure, quel senso "missionario" che accomuna l'escatologia ortodossa imperiale, ben sintetizzata dall'opera dello storico cristiano Anton Kartaschev, all'internazionalismo socialista della dottrina sovietica, porta oggi la "nuova" Russia di Putin a ripensarsi in sede di confronto con una realtà mondiale multipolare dove non c'è più spazio per gli slanci universalizzanti tipici dell'unilateralismo. Sembrano averlo capito anche gli Stati Uniti dove l'interventismo, dopo i fallimenti dell'amministrazione Bush jr, ha privilegiato un approccio molto più indiretto attraverso l'intensificazione del soft-power mediatico-culturale, l'offensiva commerciale (superdazi o sanzioni) e le operazioni militari no boots on the ground, limitate all'impiego di droni o ad incursioni-lampo aeronavali in specifici teatri di conflitto regionale.
Con l'intensa attività diplomatica guidata dal freddo acume del ministro Sergej Lavrov, Putin sembra essere in grado di rispondere prontamente alle interferenze statunitensi nella sfera d'influenza russa (Siria e Ucraina), senza subire contraccolpi destabilizzanti di medio-lungo termine. Le sanzioni imposte dall'Unione Europea e l'ultimo improvviso crollo internazionale del prezzo del petrolio hanno senz'altro messo a dura prova l'economia russa ma questa ha saputo riprendersi quasi immediatamente, dopo le prime settimane di forte difficoltà.
La presenza di Angela Merkel e di altri rappresentanti dei Paesi europei a Mosca in veste non ufficiale il giorno dopo la celebrazione del 9 maggio, dimostra che l'Europa, con la sua "diserzione" istituzionale, ha probabilmente bruciato anche l'ultima carta a sua disposizione nel confronto con il Cremlino sulla questione ucraina. Tutti i tentativi occidentali di trascinare la Russia in un terreno di scontro sono andati fortunatamente a vuoto, almeno per ora.
Non resta altro da capire che l'unica prospettiva ragionevole è quella di un nuovo assetto amministrativo di tipo federale per l'Ucraina e dell'annullamento del processo di integrazione del Paese slavo nella NATO. Altre mosse non sono praticabili e porterebbero soltanto ad uno scontro di dimensioni che, se la Seconda Guerra Mondiale ha insegnato qualcosa, non possiamo più permetterci.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia