(ASI) Il nulla. Devastati dal nulla. Intorno a noi (e dentro di noi) la presenza della pochezza e del vuoto. Non abbiamo bisogno di chissà quale mente acuta per comprendere il fatto che l’epoca in cui ci ritroviamo ad essere gettati, la nostra epoca, non è esattamente come vorremmo che fosse.
Inaccettabile per chi fa del pensare una professione di fede. Epoca squallida, esente dal seguire valori, avente la propria peculiarità nello struggente lasciarsi dominare dall’ignoranza, dal non-sapere, dalla mortificazione. Perché in fondo una caratteristica del nostro tempo è proprio questa: morire prima di morire. Siamo riusciti a sconvolgere la natura ed i suoi ritmi. La vita non basta, non riesce ad appagarci. Siamo creature particolari, sadiche. Ricerchiamo il nuovo, lo straordinario, l’extra ordinario. Persino la morte sembra che non ci preoccupi più di tanto. E la morte, l’antitesi del vivente, ricapitola nella vita, tocca la vita, sprofonda in quel “terreno della vita” divenuto sempre più arido. L’evocazione della morte è il tratto della nostra esistenza, il suo estremo sigillo: pensate a quanta morte richiamiamo nel momento in cui, banalmente, offendiamo un disabile o un qualsiasi umano ritenuto differente da noi. La morte è logicamente altro-dalla-vita. Ammettiamo che “tutto” e “nulla” sono concetti diametralmente opposti: se la vita è tutto, l’intero, la pienezza, la morte sarà allora nulla, il vuoto, lo scialbo. Quel nulla che, pur essendo altro dal tutto, riesce ad imporre la propria presenza nel tutto, rimodellando il tutto della vita secondo le proprie singolari intenzioni. Da un punto di vista logico, posta la radicale frattura tutto-nulla, parlare di un nulla nel tutto ha un significato scandaloso, pressappoco come per i pagani è puro scandalo pensare ad un Dio che rinuncia al proprio Essere Assoluto, rendendosi uomo, facendosi carne, ossa, materia, piegandosi alla giustizia della croce, morendo silenziosamente, disperdendo sangue rosso. Ma la vita non ha probabilmente molto da spartire con la logica. La logica è formale, fissa, statica. La vita è un continuo processo infinito: l’assoluta inquietudine del puro auto-movimento, scriveva il filosofo Hegel. Questa epoca ha del paradossale, l’oggi è paradossale: siamo capaci di morire vivendo. Ecco il supremo paradosso, la sua deviante potenza. I posteri, coloro che verranno dopo di noi, devono sapere. La nostra testimonianza è fondamentale in quanto ha in sé un compito estremamente fondante: porsi a fondamento di un nuovo orizzonte di senso, di un modo autentico di vivere il vissuto. Un nuovo umanesimo, insomma. Testimoniamo la morte di un’epoca che continua ad essere. Ne testimoniamo il suo fallimento.
La condizione umana è parecchio simile, riprendendo la straordinaria immagine pensata dal filosofo nostrano Franco Volpi nel suo Il nichilismo, a quella di un viandante che per lungo tempo ha camminato su una superficie ghiacciata, ma che con il disgelo avverte che la banchisa si mette in movimento e va spezzandosi in mille lastroni. La superficie dei valori è così in frantumi; proseguire il cammino risulta assai difficile, insensato, sterile. Questo è il segno evidente dell’aprirsi di quella strana creatura sociale che per molto tempo è stata definita «società nichilista». Ma quella del nichilismo (del nulla che si fa vita) è tutta un’altra storia.
Danilo Serra-Agenzia Stampa Italia