(ASI) Proponiamo ai nostri lettori il testo in tegrale dell' informativa urgente fatta alla Camera dei deputati dal Ministro Interni Angelino Alfano sul tema del terrorismo internazionale di matrice religiosa.
Ministro Alfano. ANGELINO ALFANO Ministro dell'interno
"Signor Presidente, onorevoli colleghi, il terrorismo è sovversione sistematica di valori assoluti, di tradizioni religiose, di appartenenze culturali, di diritti e di libertà. Terrorismo e antiterrorismo sono entrati prepotentemente, sostengono studiosi autorevoli, nella vita degli Stati, delle società e degli individui dell'intero pianeta, modificando il concetto di sicurezza e di sovranità. Il terrorismo internazionale di matrice religiosa, oggi, nella sua versione più evoluta e aggressiva, veste anche abiti europei, muovendosi, talvolta, insospettabile tra insospettabili e lanciando una sfida senza precedenti alla sicurezza globale.
In questa veste nuova, si pone come una nuova minaccia e guarda con più temerarietà all'Occidente, cioè a quell'insieme di Paesi e continenti che credono nella libertà della persona e nella sua insopprimibile originalità, nella democrazia. Questa sfida alla sicurezza globale, che ha già prodotto drammatici risultati, perché altri non se ne ripetano, necessita, adesso, di una risposta globale. I Paesi dell'Occidente hanno acquisito la consapevolezza di questo passaggio e dei livelli di allarme in scala potenziale, e così hanno deciso di affrontare uniti questa sfida.
In questo quadro, ho ritenuto opportuno rivolgermi direttamente al Parlamento per informarlo dello stato delle conoscenze e delle possibili ricadute di questa minaccia sul suolo Pag. 3nazionale e della situazione della cooperazione internazionale globale. Di fronte abbiamo un'organizzazione che ha ambizioni, soldi, uomini pronti a combattere che nessun'altra aveva mai avuto; un'organizzazione spietata, che infligge torture e commette crimini brutali contrari ad ogni principio di umanità; un'organizzazione che aggredisce, con l'intento di annientarla, ogni minoranza etnico-religiosa, ricorrendo anche a forme di programmato genocidio; un'organizzazione che espone la comunità cristiana a persecuzioni, e la sopraffazione dell'Islamic State si abbatte anche sulle minoranze curde yazide con assassinii e stupri.
Questa mia informativa ha l'obiettivo, dunque, di entrare nel merito di quanto detto e di confermare anche in voi che si tratta di una minaccia portata avanti da un'organizzazione con ambizioni grandissime e che intende porsi come una vera e propria soggettività statuale. A questo scopo, articolerò il mio intervento in tre parti: la prima dedicata alla struttura, alle modalità di finanziamento, di propaganda e di reclutamento dell'Islamic State; la seconda alla risposta che l'Italia, l'Europa, gli altri Stati coinvolti nelle mire espansionistiche di questo fenomeno, intendono dare; la terza, infine, dedicata alla specifica situazione italiana, ai fattori di rischio e al livello di allarme connesso alle evidenze investigative.
L'analisi non può dunque che partire dalla peculiare struttura che presenta l'IS, l'Islamic State, la formazione terroristica di matrice sunnita guidata da Abu Bakr al-Baghdadi, la quale ha ormai assunto, come dicevo, il controllo di parti rilevanti del territorio siriano e iracheno, dichiarando la nascita di un califfato autonomo amministrato secondo i dettami della legge islamica.
Le origini dell'IS si ricollegano alle dinamiche interne di Al Qaeda che portarono una sua componente, sotto la guida di al-Zarqawi, figura carismatica dell'organizzazione qaedista, a rendersi autonoma dalle sceicco bin Laden e ad elaborare il progetto di un califfato islamico esclusivamente sunnita. Le vicende successive, che hanno visto l'eliminazione di al-Zarqawi, hanno portato all'ascesa di al-Baghdadi, divenuto leader della nuova organizzazione dell'ISIS, rimasta nell'orbita di Al Qaeda fino a quando non si sono determinate le condizioni della sua fuoriuscita. Ciò è avvenuto a seguito dell'espulsione decretata dai vertici di Al Qaeda contrari ai metodi di lotta che l'Islamic State praticava nei confronti delle altre formazioni di credo sunnita.
L'Islamic State, pur avendo dei legami storici, dunque, con Al Qaeda, rappresenta una forma più aggressiva del pericolo fondamentalista e ciò per una serie di ragioni: vi è, intanto, fin dalla scelta del nome, la pretesa di considerarsi e di proporsi nei termini di una nuova e antagonista soggettività statuale che tende a trarre il massimo profitto dalla crisi dello Stato nazione che ha investito i Paesi islamici. L'Islamic State vuole esercitare il dominio su un suo territorio e in coerenza con tale autorappresentazione intende dare di sé un'immagine ben diversa da quella collegata all'idea che, come altre organizzazioni terroristiche di matrice politico-confessionale, costituisca una semplice falange armata. È un fattore, questo, di forte attrattività, la cui principale ragione seduttiva sta nel veicolare sentimenti di appartenenza e di adesione capaci di alimentare un'offerta di proselitismo più radicale e in grado di rivolgersi ad una platea vastissima, potenzialmente indiscriminata e indefinita.
Del resto l'IS si propone di estendere il proprio progetto insurrezionalista verso un'ampia regione, quella di Levante, Pag. 5che nei suoi piani è destinata a ricomprendere, oltre alla Siria e all'Iraq, anche la Giordania, la Palestina, il Libano, il territorio di Israele, Cipro; Paesi che non risultano coinvolti dal conflitto, ma che potrebbero risentirne o esserne contagiati sia a causa della vicinanza geografica sia anche per la presenza di gruppi religiosi o culturali direttamente o indirettamente coinvolti nella crisi.
La particolare pericolosità dell'Islamic State è poi legata ad una certa indipendenza da fonti esterne di finanziamento ed al fatto di aver acquisito la disponibilità di armi anche per effetto del dissolvimento di interi reparti dell'esercito regolare iracheno. Peraltro, all'IS sembra che siano stati forniti uomini e dotazioni militari da un esponente del vecchio regime di Saddam Hussein, il generale Ibrahim al-Douri, che sarebbe ricomparso di recente al fianco del leader al-Baghdadi. L'indipendenza economica ha corrisposto all'avanzata militare dell'Islamic State che ha raggiunto il controllo di importanti risorse energetiche, come elettricità e petrolio, strappandole al Governo di Damasco e a quelle di Baghdad. Inoltre, riesce anche esercitare un'azione di prelievo attraverso l'esazione delle tasse. Ai flussi finanziari derivanti da queste lucrose attività vanno aggiunti i proventi dei sequestri di persona e di altri traffici illegali, nell'ambito dei quali viene segnalato, come particolarmente fiorente, quello legato al commercio clandestino di opere d'arte e di reperti archeologici, sempre che sfuggano alla furia iconoclasta dei miliziani.
Con il denaro raccolto l'Islamic State è in condizioni di pagare i propri militanti e di soddisfare le esigenze economiche e primarie delle loro famiglie, così arricchendo la capacità di tenuta e di coesione interna dell'organizzazione, ma anche giovandosene notevolmente sul piano dell'immagine e del prestigio. Inoltre, l'Islamic State, a differenza di altre formazioni filojihadiste, rigorosamente selettive nei loro metodi di reclutamento, consente forme di accesso e di affiliazione più elastiche, secondo le quali anche un non siriano può accorrere nei teatri di conflitto per portare il suo contributo alla causa islamica.
L'insieme di queste particolari connotazioni ha finito con il dare enorme impulso al fenomeno dei foreign fighters, formato da quei giovani estremisti islamici, spesso appartenenti alla seconda generazione di immigrati, che pur non avendo nazionalità siriana o irachena decidono, generalmente Pag. 6dopo un periodo di auto-indottrinamento, di raggiungere i teatri bellici per unirsi ai combattimenti. L'attrazione verso i luoghi di conflitto ha riguardato migliaia di giovani suggestionati e irretiti da un'abile strategia comunicativa che affida la sua efficacia mediatica alla diffusione di immagini di propaganda tramite il web. Non è un caso che dalle colonne della rivista Dabiq, pubblicata on-line e organo di informazione ufficiale dell'Islamic State, sia stato rivolto l'invito ai sunniti a trasferirsi nei territori posti sotto il controllo del neo califfato con la promessa di stabilità, di sicurezza, anche economica, e di larga disponibilità di beni alimentari e materiali. La chiamata verso i luoghi della Terrasanta non appare un fatto inedito, ricordando in parte ciò che è accaduto anni fa in Afghanistan ai tempi dell'occupazione sovietica e più tardi durante il conflitto bosniaco, ma è indubbio che nel caso siro-iracheno il fenomeno abbia assunto dimensioni di massa. I motivi per i quali si sta verificando questo flusso di volontari così ampio, soprattutto verso la Siria, sono molteplici e legati anche alla facilità con cui, dopo i fatti della primavera araba e con la fragilità degli Stati del Maghreb risulta possibile eludere i controlli di frontiera. Le fonti di intelligence segnalano che anche la precaria situazione in Libia, dove si sta riacutizzando lo scontro fra componenti islamiste radicali e laico-progressiste, possa determinare condizioni favorevoli all'addestramento e all'invio di nuove reclute a sostegno del jihad siro-iracheno. La causa attrattiva dell'alto numero di combattenti stranieri, che accorrono anche da Paesi dell'area balcanica e in particolare dal Kosovo, pare sia da collegare principalmente alla rivolta sunnita contro il regime di Damasco, che svolge, come è stato osservato, una funzione di calamita per i potenziali terroristi di molti Paesi.
Considerazioni in parte analoghe valgono anche per il processo di trasferimento di volontari in Iraq, dove la mobilitazione sunnita sembra trovare le proprie scaturigini nelle politiche settarie praticate dal Governo dello sciita al-Maliki e nel sentimento di ribellione e di rivalsa che ne è conseguito. L'avvento del più moderato Abadi schiude ora nuove opportunità di un Governo più inclusivo, che potrebbe riuscire a smorzare, almeno negli auspici, le conflittualità etnico-religiose. Alla maggioranza di combattenti siriani e iracheni si aggiungono alcune migliaia di volontari stranieri provenienti soprattutto dai Paesi circostanti di religione islamica nonché Pag. 7un consistente gruppo di ceceni. Viene segnalata anche la presenza di molti occidentali nel fronte anti-Assad, sulla cui precisa consistenza numerica vi sono stime oscillanti che scontano l'estrema difficoltà di acquisire notizie certe. L'imprecisione delle fonti, determinata dall'oggettiva criticità dei diversi contesti e probabilmente anche dalla debolezza dei servizi informativi dei Paesi arabi, è notevolissima e investe anche lo stesso numero complessivo dei miliziani sui quali potrebbe contare l'Islamic State. Al riguardo, alcuni canali informativi qualificano la forza militare dell'Islamic State attorno alle 10 mila unità, altri invece ritengono che sarebbero 80 mila gli aderenti all'organizzazione islamica, mentre fonti aperte accreditano la voce secondo cui sarebbe essa forte addirittura di 100 mila uomini. Questa così sensibile approssimazione nelle stime sembra da ricondurre anche alle modalità del reclutamento, che segue logiche anomale e irregolari sulle quali difficilmente possono aversi dei riscontri certi. È arduo, ad esempio, stabilire quanti dell'esercito iracheno abbiano effettivamente disertato e siano confluiti nelle file dell’Islamic State, o ancora quanti siano gli uomini delle tribù sunnite costretti a passare, sotto minaccia di rappresaglia, nelle milizie di al-Baghdadi. Pure sull'arruolamento dei fighters – mi riferisco ai fighters occidentali – le quantificazioni appaiono soffrire di una certa aleatorietà. Il dato sulla loro entità, che include sparute presenze di combattenti provenienti dal Canada o dall'Australia e financo dagli Stati Uniti, ricomprende molti volontari, stimati in 2.300 circa, provenienti da Paesi dell'Europa, tra cui l'Italia, che è interessata dal fenomeno anche se in misura minore.
Allo stato attuale nell'esodo verso la Siria risultano coinvolte finora 48 persone collegate a vario titolo al nostro Paese, di cui 2 di nazionalità italiana, una delle quali è il ventiquattrenne genovese Giuliano Delnevo, convertitosi all'Islam e deceduto in combattimento nei pressi di Aleppo nel giugno dello scorso anno, mentre l'altra persona è un giovane marocchino naturalizzato che si trova attualmente in un altro Paese europeo.
L'ulteriore elemento che allarma l'Occidente, e che naturalmente interessa anche l'Europa, consiste nel reducismo, ossia nel rientro dei foreign fighters nei territori di provenienza dopo avere preso parte alle attività belliche, forti dell'esperienza operativa e del carisma acquisiti e ormai assuefatti alle brutalità insite in ogni conflitto. È fondato supporre che in questi reduci possa albergare la volontà di continuare l'attività jihadista nei Paesi in cui fanno ritorno, dando vita ad una sorta di prosecuzione del conflitto in una forma diversa e ad uno stillicidio di attentati, secondo una strategia che essi stessi definiscono «dei mille tagli», intendendola come un lento dissanguamento del nemico.
Che non si tratti di un'ipotetica fonte di pericolo, bensì di un fenomeno che ha già dimostrato più volte di potere colpire, lo attesta anche la circostanza che il responsabile della strage al Museo ebraico di Bruxelles consumatasi a maggio di quest'anno sia proprio un ex combattente nelle file dell'Islamic State, e cioè il francese Mehdi Nemmouche. Questo specifico aspetto del reducismo riporta a ciò che venne diagnosticato dalla comunità dell’intelligence già nel 2009, allorché nella relazione al Parlamento di quell'anno venne indicata tra i principali fattori di rischio l'improvvisa accensione di cellule jihadiste dormienti, ossia di singole persone che pur non facendo parte di associazioni terroristiche strutturate, sarebbero state pronte a risvegliarsi e a realizzare azioni ostili aderendo al richiamo della jihad globale.
Anche dopo, e cioè nel 2012, i nostri servizi misero in luce tutta la pericolosità del fenomeno dei jihadisti di ritorno, illustrando il caso dell'estremista franco-algerino Mohamed Merah radicalizzatosi in Pakistan e Afghanistan, il quale successivamente eseguì una serie di attentati nelle città di Pag. 9Tolosa e Mantauban. Esempi della pericolosità dei reduci non mancano e risalgono, come si è visto, anche a tempi che precedono l'affermazione dello Stato islamico di al-Baghdadi, al punto che si potrebbe ricostruire una lunga cronologia del terrore. In qualche misura, sia pure con tutte le diversità di contesto, si possono ravvisare elementi di analogia delle forme di jihadismo qaidista con quelle ora riconducibili all'Islamic State.
Ma è un altro l'aspetto di inquietudine che l'analisi dell'attuale scenario mette in evidenza, e su cui vorrei fare una riflessione: la minaccia portata dall'Islamic State al mondo occidentale indubbiamente si avvale del web come mezzo di potente propagazione del fanatismo fondamentalista. La capacità diffusiva della rete, anche se non è un fatto nuovo, ci costringe tuttavia a fare i conti con la dimensione pervasiva e di massa che ha assunto il fenomeno della cooptazione e del reclutamento, nella quale il contatto con l'aspirante jihadista non sembra né richiedere strutture o articolazioni militari complesse, né doversi misurare con particolari necessità organizzative. Anche la minaccia legata al fondamentalismo pare assumere dunque una consistenza liquida, nella quale il dato strutturale dell'associazione criminale volta al compimento di atti di terrorismo in Italia o all'estero, finisce con l'essere quasi surrogato dalla vastità immateriale della Rete.
Occorre allora rafforzare le armi legislative in materia di terrorismo di cui disponiamo, e questo per affrontare con accresciuta efficacia questo grave e insidioso fenomeno, mettendo mano a nuovi strumenti che tengano conto della evoluzione della minaccia. Bisogna che sia sempre possibile contestare il delitto di partecipazione a conflitti armati o ad atti di terrorismo che si svolgano fuori dai nostri confini: anche quando il responsabile corrisponda alla conosciuta figura del «lupo solitario», cioè non risulti appartenere ad alcuna associazione di stampo terroristico né abbia svolto il ruolo di reclutatore, perché altrimenti sarebbe perseguibile in base all'articolo 240-quater del nostro codice penale. L'obiettivo nostro sarebbe dunque quello di consentire la perseguibilità di condotte che, anche se connotate da pulsioni individualiste, frutto di processi di autoradicalizzazione, rappresentano pur sempre una considerevole fonte di pericolo da neutralizzare per tempo.
Anche nel campo della legislazione di prevenzione, ravviso i margini per un intervento di attualizzazione delle norme.
Vi è l'esigenza, secondo noi, di un affinamento delle disposizioni che tipizzino questa figura monadica, da monade, individuale di aspirante miliziano, includendola senza incertezze tra quelle a cui è possibile applicare la sorveglianza speciale con obbligo di dimora. Ciò avrebbe lo scopo di vanificare sul nascere il tentativo di recarsi nei luoghi della guerra santa sottoponendo l'autore a uno stretto controllo di polizia e applicando nei suoi confronti tutta quella serie di misure accessorie che lo priverebbero, di fatto, di ogni libertà di movimento.
Naturalmente si tratta, onorevoli colleghi, di spunti che dovranno essere approfonditi nella più ampia collegialità di Governo e che sento di anticipare qui in nuce perché suscitino la vostra attenzione e una prima riflessione anche nel corso del dibattito che seguirà a questa mia informativa.
Uno sguardo comparativo alle iniziative e alle attività che stanno portando avanti gli altri Paesi europei, quelli più colpiti dal fenomeno dei foreign fighters, sembra confermare che si tratta di una strada giusta, quella che intendiamo seguire noi. Nel Regno Unito, infatti, si sta discutendo di misure che consentano il ritiro del passaporto delle persone sospette, bloccandole alla frontiera, e anche di privarli della cittadinanza britannica quando siano titolari di doppio passaporto. Nel corso degli incontri che ho recentemente tenuto con i colleghi di Francia e Germania e anche nei contatti avuti con la Spagna, ho potuto constatare come questi Paesi, altrettanto consapevoli dell'elevata pericolosità dei combattenti stranieri, stiano predisponendo una serie di misure nel cui ambito è dedicata un'attenzione particolare ai flussi dei sospetti combattenti in uscita e in ingresso in Europa. Germania e Regno Unito stanno, poi, dando vita anche a programmi di prevenzione imperniati su strategie di deradicalizzazione del jihadismo, avvalendosi del supporto e dell'esperienza di insegnanti e assistenti sociali e imam moderati. Sono misure che riguardano sia coloro che hanno mostrato propensione ad abbracciare la scelta dell'estremismo islamico, in maniera che siano sospinti ad abbandonare l'ideologia jihadista, sia i giovani estremisti che, di ritorno dalle zone di conflitto, accettino di seguire percorsi riabilitativi.
Una iniziativa comune a molti Paesi consiste nel monitorare i siti di propaganda dell'islamismo violento e nel disporne la chiusura per stroncare l'attività di incitamento all'odio. E anche l'Italia, come preciserò in seguito, investe considerevoli risorse investigative nelle attività di esplorazione della rete.
Un elemento, invece, di specifica preoccupazione che riguarda il nostro Paese resta legato alla sua particolare collocazione geografica, al crocevia di transiti da e verso le zone di conflitto. Ne deriva il rischio che elementi dell'estremismo islamico, pur essendo originari di altri Paesi, possano privilegiare il nostro territorio nazionale anche solo come area di attraversamento. In tale direzione va letta l'intensificazione dei servizi di controllo presso le frontiere che è stata attuata dalle Forze dell'ordine contro il paventato pericolo che i pendolari asimmetrici del jihadismo, come vengono definiti, possano rientrare in Europa, utilizzando l'Italia come porta di ingresso.
L'impegno dei singoli Paesi è una condizione necessaria ma non è una condizione sufficiente perché è impensabile che uno Stato possa fronteggiare da solo questa particolare forma di pericolo. Il livello globale della minaccia, in considerazione anche dei suoi caratteri di trasversalità e mobilità, richiede infatti l'adozione di una strategia di collaborazione internazionale unitaria e armonizzata che valorizzi e metta a fattore comune il patrimonio informativo delle diverse Forze di polizia e degli organismi come Europol e Interpol. L'Italia ha già prontamente risposto a ogni sollecitazione che avesse lo scopo di rafforzare l'attività dei fori di cooperazione di polizia e rispondesse al mandato di approfondire la minaccia jihadista e il fenomeno dei foreign fighters.
I nostri esperti insieme ai rappresentanti dei Paesi dell'Unione europea più colpiti partecipano al gruppo di lavoro ad hoc che ha preso vita da una iniziativa del Belgio avviata anche prima che avvenisse l'attentato al museo ebraico di Bruxelles.
Un altro nostro progetto, di costituire una squadra multinazionale dedicata al fenomeno dei combattenti stranieri per favorire la cooperazione operativa, già accolto positivamente dal coordinatore europeo per la lotta al terrorismo, Gilles de Kerchove, è attualmente in discussione nei gruppi tecnici del Consiglio e in particolare nel Police Working Group on Terrorism.
Sono convinto che, sul piano internazionale, vada perseguita una strategia modulare alimentata dallo scambio di esperienze, di informazioni e di buone pratiche con i Paesi continentali maggiormente coinvolti e anche dal più fecondo confronto in sede multilaterale a cominciare dalla stessa Unione europea. In questo senso, si indirizza la nostra iniziativa che ha già posto al centro del semestre di presidenza italiana e fra le priorità dell'agenda dei lavori l'adozione di strumenti di azione comune per opporsi a quella che è diventata la più angosciosa fonte di pericolo del terrorismo fondamentalista.
Inoltre, l'obiettivo di animare iniziative comuni, nella consapevolezza della portata generale del fenomeno, è stato inserito nelle linee guida per il post-Stoccolma approvate dal Consiglio europeo nel mese di giugno scorso. Con riferimento ai foreign fighters, viene indicato l'obiettivo di una più stretta cooperazione giudiziaria e di polizia anche attraverso l'uso efficace degli strumenti di segnalazione degli spostamenti in tutta l'Unione europea e lo sviluppo di un sistema basato sull'adozione di un codice di prenotazione, il PNR, Passenger Name Record, funzionale alle attività di monitoraggio. Scopo dell'iniziativa è quello di costituire e disciplinare in maniera uniforme l'uso di una banca dati che metta a disposizione degli organismi di polizia le liste dei passeggeri dei voli in transito nell'area Schengen o in arrivo dai Paesi terzi.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, la spirale di inaudita violenza, che ha trovato il suo culmine nell'efferata esecuzione dei due giornalisti americani, dimostra anche e purtroppo la sagace strategia comunicativa dell'auto-proclamato Stato islamico. Il miliziano, che appare nei video dei due terrificanti eventi, si esprime, come è stato osservato, in un inglese «british», che ha fatto supporre che si tratti di una persona lungamente residente nel Regno Unito o perfettamente integrata. È evidente l'ambivalenza del messaggio: da un lato, rivolto ai Paesi anglosassoni e forse all'intero mondo occidentale come a volerne accrescere la preoccupazione che altri possano infiltrarsi e colpire anche fuori dai confini dell'Islamic State, dall'altro, diretto ad aspiranti co-religionari, ai quali è stata fornita una dimostrazione del modo in cui si può assumere un ruolo di protagonista se solo si abbraccia la causa del califfato. Tuttavia, è proprio questa violenza così sfacciatamente esibita che può ritorcersi contro gli interessi espansionistici dell'IS, procurandogli l'avversione di quei gruppi islamici che non sono disposti a seguirne la deriva barbarica. Le reazioni alla brutalità degli islamisti e alla ferocia con cui impongono la «sharia» nelle zone conquistate potrebbero risultare simili a quelle provocate dallo Stato islamico dell'Iraq, proclamato da Al Qaeda, che venne attaccato e ridotto a mal partito dalle milizie delle tribù sunnite. A indebolire le pretese egemoniche dell'Islamic State può concorrere inoltre Pag. 14anche il tentativo di Al Qaeda di contenderne la leadership, aprendo una forma di competizione che sembra guardare anche ad altri scenari, come il subcontinente indiano, allo scopo di farne nuova terra di conquista e di fidelizzazione. A questo si aggiunga che l'accesa rivalità fra i gruppi estremisti erode, come è stato osservato, l'illusione che i guerrieri islamici possano effettivamente combattere insieme, rimanendo uniti, la qual cosa ne potrebbe offuscare il prestigio e renderli più vulnerabili sul piano della legittimazione. Naturalmente, la lotta alla minaccia portata dall'Islamic State non può solamente speculare o giovarsi sulle e delle possibili tensioni interne al fronte islamico-fondamentalista e sui contrasti spesso personali tra i leader dei vari gruppi, anche se queste tensioni rappresentano oggettivamente un'opportunità per contrastare e ridurre la pericolosità del jihadismo. Occorre, dunque, che l'intera comunità internazionale abbia la capacità di organizzare una risposta energica, efficace e coesa basata anche su un'accorta politica di collaborazione con i Paesi dell'islam moderato.
Le conclusioni del vertice Nato svoltosi la scorsa settimana nel Galles, con l'unanime riconoscimento da parte dei maggiori leader dell'Alleanza atlantica della necessità di contrapporsi fermamente alla sfida lanciata dall'Islamic State e di agire insieme per indebolirne e distruggerne le capacità offensive, incoraggiano a pensare che sia stato fatto un passo decisivo per una forte e risolutiva attività di cooperazione. Nessuno certamente intende nascondere o sottovalutare la difficoltà del compito e soprattutto le delicate implicazioni delle scelte strategico-militari che dovranno essere dispiegate per prevalere sul campo avversario, ma resta in ogni caso evidente che, attraverso la decisione di mettere in campo uno sforzo congiunto contro il neo-califfato, a cui darà il suo contributo anche l'Italia, è stato dato un segnale atteso e, al tempo stesso, di straordinaria importanza.
Passando all'Italia, la minaccia costituita dall'Islamic State si qualifica, ancor più di quanto non sia accaduto negli anni passati per Al Qaeda, in termini di guerra globale, in quanto viene predicata una conflittualità totale e senza quartiere che vuole annientare ogni minoranza culturale e religiosa e neppure risparmia, come si è visto, le fazioni islamiche considerate avversarie.Pag. 15
Il principale obiettivo dell'Islamic State resta comunque l'Occidente e ogni simbolo che lo rappresenti storicamente, politicamente e culturalmente. È l'Occidente soprattutto che l'Islamic State intende travolgere nelle sue fondamenta e sembra da condividere l'analisi secondo la quale, in questo preciso target, il profilo dell'Italia non occupi un posto secondario. Il nostro è intanto il Paese che è culla della cristianità e Roma, il luogo di residenza della più alta autorità spirituale dei cattolici, viene appunto evocata nei discorsi e nei videomessaggi lanciati di recente da al-Baghdadi, il quale, nelle sue rituali esortazioni alla guerra santa si propone anche nelle vesti di guida religiosa del popolo islamico, indicando, nella sua visione apocalittica dello scontro tra civiltà, un destino radioso che presto porterà i musulmani a divenire i padroni del mondo.
È anche vero che, secondo una certa analisi, la nostra capitale, di cui è vagheggiata la conquista, sarebbe richiamata con riferimento al suo valore simbolico, cioè in ragione della sua importanza millenaria nella storia del continente europeo e dell'intera civiltà occidentale, piuttosto che come concreto luogo fisico, ma non sarebbe prudente dare alle parole di al-Baghdadi un significato esclusivamente metaforico, minimizzandone il senso di una minaccia concreta.
Questo perché dobbiamo sempre considerare la platea a cui egli si rivolge ed il rischio che menti deboli e facilmente influenzabili possano lasciarsi suggestionare dai messaggi del loro capo politico e spirituale, interpretandoli alla lettera.
Vi sono poi ulteriori elementi di esposizione che riguardano la posizione internazionale del nostro Paese e la sua politica estera. In questo quadro, si possono ricordare alcune componenti di rischio. Intanto, l'Italia, fin dall'attentato alle «torri gemelle» non ha mai fatto mancare il proprio appoggio alla lotta al fondamentalismo islamico, schierandosi tra i Paesi maggiormente impegnati su questo fronte.
Non possono poi essere trascurati l'antica vocazione atlantista del nostro Paese, la sua tradizionale amicizia con gli Stati Uniti d'America e il fatto stesso di trovarsi oggi al vertice dell'istituzione europea.
Più di recente, la necessità di impedire attraverso atti concreti che il nascente stato islamico persegua i suoi progetti di genocidio contro le minoranze etnico-religiose ha determinato il Governo italiano all'inevitabile scelta, avallata dalle Pag. 16Camere, di aderire alla richiesta di aiuto umanitario e di supporto militare delle autorità regionali curde in Iraq.
Gli indicatori a cui ho fatto riferimento servono a darci tuttavia l'idea di un pericolo che richiede la massima vigilanza e l'interesse verso ogni segnale premonitore, anche quello apparentemente più tenue, che possa consentire la diagnosi precoce di eventuali rischi per la sicurezza interna o per gli interessi italiani all'estero, ogni segnale premonitore.
Delineato così il quadro dei fattori di rischio, va anche responsabilmente riferito che non si registrano al momento evidenze investigative in ordine a progettualità concrete, dirette contro l'Italia, da parte dell'Islamic State. L'attività di prevenzione e contrasto, in continuità con una consolidata linea di intelligence investigativa, si è indirizzata verso il monitoraggio dell'estremismo islamico, tenendo conto della sensibile diversità dei veicoli di propagazione che appaiono interessati da una trasformazione profonda maturata negli ultimi anni e favorita dalla diffusione di Internet e dei social network. Resta ovviamente alta l'attenzione verso i centri di aggregazione religiosa dei quali è stata fatta un'accurata rilevazione che ha portato a censire nell'intero territorio nazionale 514 associazioni e 396 luoghi di culto, tra cui le quattro moschee di Roma, Milano, Colle Val d'Elsa e Ravenna.
Voglio precisare che questa attività non è frutto di alcun pregiudizio ideologico, né intende additare una sorta di pericolosità presunta e aprioristica che prescinda da concreti elementi investigativi.
In effetti, quando si è agito contro i predicatori dell'odio, ossia nei confronti degli imam più oltranzisti è perché erano stati individuati come i principali responsabili di pericolosi processi di radicalizzazione, o come agenti infiltrati dell'estremismo islamista.
Sono undici i provvedimenti di espulsione adottati dai Ministri dell'interno succedutisi dal 2002 ad oggi.
Anche il provvedimento di espulsione, che ho adottato per motivi di sicurezza ad inizio dello scorso mese di agosto nei riguardi di un imam, il marocchino Raoudi Albdelbar, residente in Veneto, si è fondato sul forte tenore antisemita della sua attività predicatoria, peraltro diffusa anche sul web. Che non sia il caso di nutrire posizioni preconcette sembra dimostrarlo anche l'atteggiamento collaborativo della grande maggioranza degli imam, con i quali è stato preso contatto in occasione della recente mappatura delle associazioni islamiche e dei luoghi di culto. La loro disponibilità e la loro apertura al dialogo rappresentano un dato di estrema importanza che può sostenere, in una chiave di moderazione, il percorso di integrazione delle comunità musulmane e favorirne condizioni migliori di accettazione e di convivenza nell'ambito delle realtà locali di riferimento. Rimane una certa frammentazione nel mondo di religione musulmana che rispecchia anche in Italia quella dimensione plurale che è un segno distintivo dell'islam mondiale e del suo variegato frazionismo, motivato anche da cause politiche o religiose, benché, per la stragrande maggioranza – mi riferisco all'82 per cento –, le associazioni censite siano di estrazione sunnita. L'altro canale che è stato oggetto di costante monitoraggio è quello rappresentato dalle varie piattaforme digitali, le quali hanno assunto quella dimensione di luogo virtuale della propaganda jihadista che ho già ricordato. Sono evidenti le difficoltà di controllare i messaggi veicolati dal web, la cui capacità di diffusione virale verso una pluralità indistinta di potenziali militanti rappresenta in sé una forma di pericolo. È stato necessario, di fronte a questa peculiare minaccia, mettere in campo sofisticate attività di investigazione per le quali si è dovuto ricorrere a tecniche di avanguardia che hanno richiesto l'investimento di maggiori risorse e l'impiego delle più qualificate expertise professionali. Naturalmente ci si è largamente avvalsi delle risultanze fornite da operazioni tecniche di carattere preventivo, frutto di un ascolto mirato che ha setacciato i vari ambienti di proselitismo e radicalizzazione. Anche nelle attività di investigazione collegate al terrorismo di matrice islamica, allo stesso modo che per quelle di contrasto all'eversione interna, si è rivelata fondamentale la collaborazione tra gli apparati professionali Pag. 18delle forze dell'ordine e gli esperti delle agenzie di intelligence attivati da tempo nell'ambito del Comitato di analisi strategica antiterrorismo, il C.A.S.A.. Dal 1o gennaio di quest'anno il C.A.S.A. ha tenuto ben trentacinque riunioni, tutte dedicate al tema e nell'ambito delle quali è stata compiuta una approfondita analisi di scenario passando al vaglio 162 alert, di cui 129 relativi a gruppi terroristici internazionali, e nel dettaglio 81 segnalazioni hanno riguardato specificamente il nostro Paese e l'altra metà più in generale gli Stati occidentali, compresa l'Italia. Il tavolo di alto coordinamento che opera presso la direzione centrale della polizia di prevenzione, che è un'articolazione del Dipartimento della pubblica sicurezza, ha focalizzato vari dossier informativi, non trascurando di esaminare, accanto ai profili internazionali della minaccia collegati alle diverse situazioni geopolitiche, anche i possibili addentellati interni in riferimento alle attività dei gruppi eversivi autoctoni. A tale riguardo, cioè a proposito del terrorismo interno, mi dichiaro ovviamente, Presidente, fin d'ora disponibile a tornare in Parlamento per una specifica informativa. Oltre a pianificare attività preventive ad ampio spettro che hanno riguardato anche gli istituti di pena e hanno perciò coinvolto il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, il C.A.S.A. ha poi predisposto a supporto dell'attività operativa uno specifico disciplinare dedicato alla problematica dei foreign fighters e al connesso fenomeno del reducismo.
Vorrei precisare che gli esiti investigativi, di cui danno notizia in questi giorni gli organi di stampa, fanno riferimento ad indagini avviate da tempo in relazione ad alcuni alert, di cui i successivi riscontri, effettuati anche sulla base delle indicazioni del C.A.S.A., hanno consentito di escludere l'attendibilità o l'attualità. In altre circostanze, notizie di stampa fanno riferimento a persone che sono state saltuariamente in Italia, i cui passaggi sul nostro territorio sono stati comunque registrati e monitorati. È il caso, ad esempio, del predicatore bosniaco Bosnic Husein, la cui posizione, prima che la polizia bosniaca procedesse qualche giorno fa al suo arresto era stata più volte esaminata nell'ambito dello stesso C.A.S.A., in relazione alla sua segnalata presenza anche in Italia. Assai intenso nel periodo in cui è maggiormente cresciuto il livello di allarme, è risultato il raccordo tra la struttura dipartimentale della polizia di prevenzione e le diverse articolazioni Pag. 19territoriali. Dal 1o giugno scorso sono state diramati venticinque allertamenti relativi a possibili minacce riconducibili all'Islamic State.
Preciso subito che gli approfondimenti esperiti in ordine alle diverse segnalazioni non hanno portato ad elementi di riscontro. In ogni caso, non sono mancate, anche nel corso di quest'anno, iniziative giudiziarie di rilievo, come ad esempio quella messa a segno tra il 18 e il 19 giugno, che ha portato all'arresto di tre persone di origine libanese nei cui confronti erano stati acquisiti elementi probatori circa il finanziamento di organizzazioni terroristiche mediorientali.
Altre operazioni di spessore investigativo sono state realizzate in stretto rapporto collaborativo con la Francia, il Paese europeo più colpito, e le autorità transalpine dell'antiterrorismo. Le operazioni in questione hanno riguardato il franco-tunisino Tliba, trasferitosi in Siria per unirsi a una formazione jihadista, arrestato dalla nostra Polizia il 16 gennaio scorso mentre sbarcava nel porto di Ancona provenendo dalla Grecia, e il combattente Ibrahim Boudina catturato dalle autorità francesi a Nizza l'11 febbraio di quest'anno, transitato a Bari e a Milano e rintracciato grazie alla collaborazione delle unità antiterrorismo italiane.
Vorrei, prima di concludere, non eludere un punto di particolare delicatezza più volte evocato in questi giorni come uno specifico motivo di preoccupazione per l'Italia, e cioè che attraverso gli sbarchi possano giungere migranti di orientamento radicale che maturino il proposito di progettualità ostili o di azioni dimostrative eclatanti. Quando, nello scorso agosto, ho rassicurato circa il livello altissimo di allerta e di vigilanza, ho anche aggiunto – e lo ribadisco – che le fonti di intelligence non segnalano questo rischio tra quelli a cui il Paese potrebbe essere esposto. Certamente è un aspetto che non verrà trascurato, perché una diversa posizione sarebbe considerata controintuitiva e verrebbe meno all'impegno di cui sono garante, di non sottovalutare o non dare nulla per scontato, anche perché, se è vero che non è stato finora segnalato alcun rischio concreto, è altrettanto vero che nessuno può escluderne la possibilità.
L'offensiva dell'Islamic State rappresenta una forma orribile di sfida all'Occidente e ai suoi valori, ma non possiamo sovrapporla in maniera apodittica ai problemi dell'immigrazione, che sono tanti e per i quali ci stiamo tanto impegnando. Pag. 20Condivido l'opinione di chi ritiene che dobbiamo guardare alla realtà e attenerci ai fatti, contribuendo a un'analisi oggettiva e lucida e possiamo farlo solo a condizione di rifuggire da semplificazioni discorsive.
Concludo, signor Presidente, onorevoli colleghi, dicendovi che i fatti esposti, la gravità e il dramma di quanto realizzato dall'Islamic State fino adesso ci spiegano una volta di più che il lungo cammino della libertà, il lungo cammino dei diritti umani attraverso la storia, il lungo cammino della democrazia non si sono ancora compiuti e ancora non si sono conclusi.
Quanto mai attuali vengono in mente le parole e le idee del Presidente Roosevelt sulle quattro libertà fondamentali (la libertà di parola, la libertà di credo, la libertà dal bisogno e la libertà dalla paura), perché in effetti il senso profondo di quello che si sta verificando risiede nella mancanza di queste quattro libertà.
La libertà di parola, che è negata da quei regimi che affondano la loro forza sul divieto di libera espressione. La libertà di credo, che è negata dai regimi privi di qualsiasi forma di laicità e le esperienze dell'Afghanistan, della Somalia, delle «primavere arabe» indicano che quando i diritti fondamentali dell'uomo, in primis la libertà religiosa, sono conculcati con forza si creano le premesse per la ribellione e l'instabilità. La libertà dal bisogno, perché uomini poveri cercano un riscatto anche attraverso forme di ribellione come quella armata. E la libertà dalla paura, che si chiama sicurezza e che è il compito essenziale che ci ha portati qui, in Aula a dire che il compito del Governo è quello di fare sì che l'Italia continui ad essere un Paese sicuro, nel quale gli italiani possano continuare a vivere, a investire, a sperare, a costruire liberamente il proprio futuro. Ce la metteremo tutta e sono convinto che, insieme al Parlamento, faremo le scelte giuste per centrare questo grande obiettivo che coincide con la libertà degli italiani.
Redazione Agenzia Stampa Italia