(ASI) «Il lavoro fatto bene, va pagato. I giornali dovrebbero avere freelance in esclusiva, allevarli, curarli, tenerseli stretti. Se dirigessi un giornale, io vorrei il meglio e lo vorrei solo per me. Vorrei poter dire ai lettori, io vi offro il meglio in piazza, vedete voi».
A parlare ad Agenzia Stampa Italia è Barbara Schiavulli, giornalista freelance di guerra e scrittrice che negli ultimi vent’anni ha seguito i fronti caldi del mondo, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Palestina al Sudan, dal Pakistan allo Yemen. Nella sua carriera giornalistica ha vinto numerosi premi, tra cui il Premio Lucchetta (2007), il Premio Antonio Russo (2008), il Premio Maria Grazia Cutuli (2010) e il Premio Enzo Baldoni (2014).
Il primo reportage di guerra ha comportato un trasloco. «Avevo solo 24 anni, volevo scrivere del conflitto israelo-palestinese, e invece di stare una settimana a Gerusalemme ci sono stata tre anni». Grazie a questa esperienza «ho imparato molto, dai colleghi internazionali, su come si fa questo mestiere e sui giornali riguardo a quello che vogliono. E anche su me stessa, perché anche se vuoi fare l'inviato di guerra, non sai mai se può farlo se non ti trovi in mezzo ai proiettili che volano. Se scappi, come farebbe qualsiasi persona saggia, devi aspirare ad altro, se tiri fuori il blocchetto o la macchina fotografica, allora hai trovato il tuo posto nel mondo».
Il giornalismo e il crowdfunding. L’ultimo reportage della Schiavulli sta riguardando l’estremismo islamico in Europa. Lo sta realizzando grazie al progetto Gli occhi della guerra, il crowdfunding promosso da il Giornale. «Questo modo di fare giornalismo è interessante perché mette la gente in condizioni di decidere quello che vuole leggere». Molto spesso i giornali «dicono che queste cose i lettori non le vogliono, ma non è così». Molte testate giornalistiche «hanno trascorso troppo tempo seduti sulle sedie, davanti agli schermi del computer, a pensare alla pubblicità e ai soldi, invece di pensare a quello che serve, a come si offre un servizio, o quello che è il vero giornalismo».
Qualità dell’informazione. «Il buon giornalismo non è cambiato, fare inchieste è ancora necessario». Con internet – così veloce ed immediato -, molto spesso le notizie che leggiamo nei giornali sono già vecchie. Ma «le notizie non raccontano la Storia, è solo informazione. I giornali non possono stare al passo con internet, non riuscivano neanche a stare al passo della Tv, figuriamoci ora, quindi serve un prodotto migliore, servizi migliori, qualità altissima, altrimenti i giornali sono morti».
Freelance e compensi. «E’ difficile far capire che i compensi in Italia sono ridicoli. In guerra hai spese che servono anche a proteggerti, ma i giornali pur di pagare poco, farebbero qualsiasi cosa, dall'abbattere la qualità dell'articolo, al far finta di non vedere che sei in pericolo». L'adeguato compenso di cui si sta tanto discutendo? «Non ho niente da dire, fa schifo, è umiliante, avvilente, da non prendere in considerazione, ma questa è una giungla e noi siamo gli animaletti da sacrificare. Tanto non abbiamo contratto, assicurazione, rassicurazione, solo delle voci, che sono più tenue di quelle nelle sedute spiritiche. Non ho visto i colleghi delle redazioni scendere in piazza per i freelance, eppure senza di loro i giornali neanche uscirebbero».
Il lavoro non è gratis. «Il giornalismo merita di tornare a valere, di essere importante e rispettato, con persone brave, corrette e oneste». Per far questo andrebbero fatti diversi cambiamenti. Ad esempio, «chi va in pensione, dovrebbe smettere di scrivere per i giornali». «Io capisco quanto sia difficile, ma così non è possibile competere, mi dispiace che siano lasciati a casa, ma ci sono ancora tante cose interessanti da fare, come scrivere libri, insegnare, girare, dedicarsi alla famiglia». Da noi invece «si resta avvinghiati al pezzo fino a che non si muore sul campo». E poi «i giovani devono capire che il lavoro non è gratis, pur di vedere il proprio nome su un giornale, non si può farlo gratuitamente. Perché distruggono tutti quelli che lottano per compensi che non saranno mai adeguati, ma magari dignitosi. Chi prende due euro, non ne prenderà cento tra un mese. I nostri pezzi sono in vendita, non noi».
Fabio Polese – Agenzia Stampa Italia