(ASI) E’ recentemente uscito e, alla prima ristampa, il libro di Andrea Giacobazzi: “Il Fez e la Kippah” (pp. 318, € 25,00). Pubblicato da “Edizioni all’insegna del Veltro” si avvale della prefazione del professor Stefano Fabei, storico e autore di numerosi saggi. Il saggio di Giacobazzi è uno studio scientifico che raccoglie tre cinquantine di documenti ufficiali sul rapporto tra il regime fascista e il mondo ebraico. L’autore ha iniziato a lavorare per la realizzazione di questo libro nel 2010, approfondendo l’argomento e scavando negli archivi, ha trovato materiale di sicuro interesse storico. Questi documenti, spiegati e collegati fra loro in base agli argomenti trattati, sono estratti di giornali, testi riservati e comunicazioni segrete. Giacobazzi ha precedentemente scritto, per edizioni “Il Cerchio”, “L’asse Roma-Berlino-Tel Aviv”.
Come nasce la scelta di approfondire questo argomento? Possiamo definirlo un seguito al suo lavoro “L’asse Roma-Berlino-Tel Aviv”?
Ne “L’Asse Roma-Berlino-Tel Aviv” per circa metà del testo si tratta di un “problema storico” non meno controverso, ovvero i rapporti intercorsi tra il mondo ebraico-sionista e la Germania di Hitler. Gli argomenti trattati toccano alcune pagine poco note della storia contemporanea europea. Si pensi al memorandum d’apertura inviato dalla federazione sionista tedesca alle autorità del Reich, o al grande accordo di trasferimento nazi-sionista “Haavara”. Ogni ebreo diretto in Palestina depositava denaro in un conto speciale in Germania, questi soldi erano utilizzati per acquistare attrezzi agricoli, materiale da costruzione, fertilizzanti e altri prodotti fatti in Germania che - esportati in Palestina – venivano venduti dalla Società Haavara. Il denaro derivante dalle vendite veniva dato all’emigrante ebreo, al suo arrivo in Palestina, in un importo corrispondente al suo deposito. La Germania arrivò così al primo posto nel giugno 1937 nella lista dei paesi esportatori in Palestina. Questo processo di emigrazione era sostenuto da un arcipelago di campi di riaddestramento, approvati dalle autorità del Terzo Reich. Non mancarono, tra l’altro, casi di viaggi politici di esponenti del governo tedesco nella “Palestina ebraica” (un esempio per tutti: la spedizione-reportage del barone von Mildenstein) e scambi di informazioni tra uomini dell’Haganah e gerarchi. Gli episodi riguardati contatti e collaborazioni potrebbero essere molti. Uno dei più eclatanti che mi viene in mente è la richiesta di alleanza militare inoltrata all’inizio della Seconda Guerra Mondiale dal gruppo sionista Lehi al governo di Hitler in cambio della creazione di uno Stato ebraico “nazionale e totalitario” dopo la fine del conflitto. Tra i triumviri che ressero per un certo periodo le sorti di questo gruppo c’era anche Yitzhak Shamir che dopo qualche decennio diventerà primo ministro israeliano. “Il fez e la kippah”, a differenza de “L’Asse Roma-Berlino-Tel Aviv”, si concentra quasi integralmente sul fascismo italiano. Anche la struttura del testo è completamente diversa: si tratta di una raccolta commentata di centocinquanta documenti d’archivio. L’idea è quella di procedere all’approfondimento di questi rapporti lasciando grande spazio al testo della documentazione politico-diplomatica che in diversi casi consta di riproduzioni complete. Già dalla quarta di copertina si può avere un assaggio del contenuto: tre citazioni che riguardano i rapporti di tre segmenti del mondo israelitico col fascismo: le organizzazioni ebraiche (non necessariamente sioniste), l’organizzazione sionista e il movimento sionista revisionista. Leggendo le pagine del libro si incontreranno molti progetti di collaborazione, alcuni attuati, altri solo proposti, altri ancora iniziati e non conclusi. Si va dalla penetrazione culturale nel Vicino Oriente, fino ai tentativi di fascistizzazione dell’ebraismo mediterraneo, dall’appoggio di alcuni organi della stampa sionista palestinese al “Regime d’Italia” sino alla propaganda politica per mezzo dei sionisti revisionisti, dal supporto pratico all’emigrazione fino alle grandi dichiarazioni di stima fatte da alti esponenti del movimento (futuri politici israeliani) a Mussolini e ad altri gerarchi.
La copertina del libro è stata al centro delle polemiche poiché definita antisemita. In realtà sembrerebbe anche antifascista visto che recita “il Duce e il diavolo”. Come mai avete scelto l’immagine dell’Imperial Fascist League britannico?
A marzo un celebre deputato, quando la copertina fu messa sulle locandine, parlò di “episodio gravissimo”, sul quale si augurava “conseguenze in applicazione della cosiddetta legge Mancino”, arrivando ad auspicare che gli “inquirenti” - cito testualmente – verificassero “il contenuto del convegno” che in quei manifesti si annunciava. Anche “La Repubblica” parlò di “manifesti antisemiti”, il “Coordination Forum for countering antisemitism” preparò una scheda tradotta in diverse lingue per segnalare l’accaduto su scala internazionale. Curioso che per una copertina con un’immagine affine, come quella scelta per uno degli ultimi libri di Valentina Pisanty, edito dalla Bompiani e con prefazione di Umberto Eco, non si sia sentita mezza polemica. Del resto lo stesso De Felice, uno dei maggiori storici italiani, usò “La Difesa della razza” di Telesio Interlandi per la copertina del suo “Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo”. Ma torniamo a “Il fez e la kippah”: il volantino da cui è tratta l’immagine incriminata aveva in effetti intenti “antifascisti”. In essa si raffigura un ebreo che pare dire qualcosa in un orecchio al Duce, il tutto sormontato dalla scritta “The Duce and the Deuce!”. Come avete giustamente detto si tratta di un prodotto dell’Imperial Fascist League britannica (nonostante il nome, più legata a Berlino che non a Roma). Come è noto Mussolini per un certo tempo attaccò il razzismo nordico e nel suo famoso discorso di Bari (1934) arrivò a prendersi gioco di alcuni aspetti dell’ideologia hitleriana. In quell’occasione disse: “Possiamo guardare con un sovrano disprezzo talune dottrine d'oltralpe, di gente che ignorava la scrittura con la quale tramandare i documenti della propria vita, in un tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio ed Augusto”. Il volantino, non a caso, fu pensato da questi filonazisti inglesi ai tempi della guerra d’Etiopia per cercare di screditare Mussolini. Queste tensioni politico-ideologiche non devono stupire: nel 1924 il biografo nazionalsocialista di Mussolini (A. Dresler) aveva definito il fascismo, con una buona dose di esagerazione, come “movimento ebraico capitalista”.
Nel leggere i documenti si incontrano personaggi che hanno fatto la storia del secolo scorso: Mussolini, Ciano, Jabotinsky, Weizmann, Ben Zvi ed altri. Sembrano inconciliabili fra loro. E invece in alcune circostanze questi personaggi si ammirano cercando anche di relazionarsi. Ci spiega come iniziano queste collaborazioni?
Oggi si parla spesso di “male assoluto”, una categoria storicamente improponibile. Il fascismo fu per un lungo periodo approvato, esaltato, preso a modello. La lista dei personaggi storici (di tutte le coloriture ideologiche) che elogiarono Mussolini ed il suo sistema politico necessiterebbe di alcune pagine. Il biglietto da visita del fascismo, nel campo delle relazioni internazionali, era gradito a molti, sgradito ad alcuni, rifiutato da quasi nessuno. L’Italia era una Potenza di primo piano, al centro del Mediterraneo, vincitrice della Prima Guerra Mondiale: escludere aprioristicamente un rapporto con essa significava rinunciare a grandi spazi di manovra. Molti e di peso furono gli ebrei fascisti. Gli stessi sionisti capirono velocemente che senza un contatto diretto con l’Italia sarebbe stato più difficile sviluppare una “Patria ebraica” nel Mediterraneo. I sionisti revisionisti (avi politici dell’attuale destra israeliana e noti come i “fascisti del sionismo”) aggiungevano a questi aspetti tattici una certa empatia ideologica e simbolica.
In conclusione, possiamo affermare che l’Italia – almeno fino al 1937 - costituì per gli ebrei una carta da giocare e viceversa?
Anche oltre. Ancora nel 1938 presso la scuola marittima di Civitavecchia - e sotto le insegne del fascismo - esisteva un corso betarista (sionista revisionista) in cui si formò uno dei primi nuclei della futura marina israeliana. Negli anni ’60 uscì un volume, ormai quasi introvabile, dove l’ ex-capo dei sionisti revisionisti italiani Leone Carpi descriveva l’origine e gli sviluppi di questo particolarissima collaborazione fascio-sionista. Il testo aveva un titolo chiaro: “Come e dove rinacque la marina d’Israele”. Un allievo di questo corso divenne personaggio di fama internazionale, autore di best seller e coproduttore di spettacoli a Broadway: Zvi Kolitz. Col suo “Yossl Rakover si rivolge a Dio” divenne un’icona dell’antifascismo e un riferimento politico per alcuni gruppi di coloni ebraici. Pochi sanno che l’ebreo lituano Kolitz fu uno dei più entusiasti studenti del corso di Civitavecchia e, cosa quasi sempre taciuta, autore nel 1936 di “Mussolini”, plaudente libro scritto in ebraico e dedicato “al Capo del Governo”. Se è vero che l’avvento del razzismo colpì in modo duro queste relazioni, allo stesso tempo va ricordato che, sul fronte dell’ebraismo italiano, nel 1938 molte migliaia di ebrei erano iscritti al Partito Nazionale Fascista (alcuni forse per una sorta di autodifesa) e che allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale diverse furono le richieste da parte di israeliti italiani per combattere nella “guerra europea” anche al fianco della Germania di Hitler. La stessa Unione delle comunità israelitiche si fece portatrice di queste istanze.
Fabio Polese – Agenzia Stampa Italia