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Tragedia del Moby Prince. Intervista a Fabio Piselli, testimone scomodo

(ASI) Centoquaranta vittime è lo sconvolgente bilancio della tragedia della nave Moby Prince, avvenuta al largo del porto di Livorno la sera del 10 aprile 1991. Nelle ore immediatamente successive al mesto evento i media registrano l’opinione autorevole di istituzioni politiche e vertici militari circa le cause di quanto è appena avvenuto.

Essi attribuiscono all’errore umano e alla fitta nebbia le responsabilità di una collisione con la petroliera Agip Abruzzo, da cui sarebbe scaturito l’enorme incendio che ha carbonizzato la nave e tutto l’equipaggio salvo un giovane mozzo. E’ questa precipitosa tesi che si cristallizzerà nell’opinione pubblica, sebbene durante i trascorsi ventuno anni siano emersi elementi capaci di minare l’ennesima discutibile verità ufficiale su uno dei tanti misteri d’Italia.
Il nostro intento è quello di sviscerare questi elementi significativi al fine di stimolare riflessioni collettive sulla vicenda. Per questo, dopo esserci già occupati della tragedia con un articolo pubblicato a gennaio, in occasione della ricorrenza abbiamo contattato Fabio Piselli, la cui figura si va ad intrecciare con la riapertura dell’inchiesta sulla Moby Prince come “persona informata sui fatti”. L’intervista che proponiamo alla vostra lettura - costellata da passaggi inquietanti - è un auspicio affinché la luce illumini la memoria storica penetrando attraverso la cortina di fumo che la avvolge. Quella sì, davvero fitta, oltre che calata non dall’errore ma dall’orrore umano. Con preoccupazione, leggendo le parole di Fabio Piselli, non è escluso che si possa evincere un quadro allarmante, ovvero che a frapporsi tra il coraggio di un onesto servitore dello Stato e la Giustizia ci sia talvolta l’inaspettata figura losca delle Istituzioni.

Signor Piselli, anzitutto si presenti ai nostri lettori e spieghi come è entrato a far parte della vicenda Moby Prince…
Oggi ho 44 anni ed una famiglia, sono un educatore, mi occupo di minori a rischio e di turismo sportivo. Dal 1985 al 1988 sono stato un militare di carriera, poi transitato nella sicurezza privata all’estero e nelle consulenze in favore della polizia giudiziaria in materia di intercettazioni fino al 2007, pur operando contestualmente nel settore sociale in favore di disabili e minori a rischio. Nel 1991 ho partecipato ai soccorsi verso il Moby Prince come membro dell’allora embrionale protezione civile ed ho approcciato tale evento anche con l’esperienza militare evidenziando taluni fatti che rapportai nell’immediatezza, sia rispetto al recupero di due o tre pistole poi ricondotte a dei passeggeri morti nella tragedia sia relativamente alle attività della base americana di Camp Darby, che ben conoscevo avendola frequentata sin dal 1985.

La morte di Massimo Pagliuca (nella foto, un momento del funerale, con la bara portata da militari italiani e americani, NdR), suo cugino, è collegata al suo coinvolgimento nelle indagini della Moby Prince?
Massimo è morto nel 2004, affogato in mare dopo una caduta dalla barca. Non c’è un collegamento con la tragedia del Moby Prince, salvo il fatto che lavorava presso l’Ambasciata americana come impiegato nella Defense Intelligence Agency, che sarebbe il controspionaggio militare americano, era un’autista e come tale ha trasportato gli alti ufficiali di quella agenzia di spionaggio in giro per l’Italia, passando talvolta anche da Livorno, come è avvenuto poco dopo la tragedia. Dopo la sua morte ho sviluppato una serie di ricerche sia per comprendere le dinamiche dell’incidente nel quale ha perduto la vita sia per verificare il collegamento con altri operatori della DIA morti in diverse località, chi per suicidio chi per incidente. Tuttavia non ho trovato dei seri elementi, oltre l’evidenza dell’incidente dalla barca. Con Massimo avevo un rapporto fraterno, era il figlio della sorella gemella di mio padre, con lui ci siamo supportati durante i momenti più brutti e mi ha sempre offerto consigli, unitamente a suo padre Domenico, anch’egli alla DIA. Mi hanno consentito di sviluppare dei contatti con gli americani sin da quando mi sono arruolato nel 1985, e dai quali ho tentato di avere notizie relativamente alla possibilità che dalla base di Camp Darby, ed in particolare quella di Coltano, potessero esser state captate delle comunicazioni o monitorata l’area del porto di Livorno la sera della tragedia del Moby Prince. La risposta è stata “non negativa”, tanto che ho fornito alla procura procedente i nominativi dei responsabili del settore intelligence militare americano residenti nelle basi tedesche ove transitavano taluni rapporti, i quali avrebbero potuto eventualmente offrire una migliore memoria rispetto agli strumenti in uso nell’aprile 1999. Sempre se autorizzati dal proprio governo.

Proviamo a scandagliare questi elementi cui ha accennato e ad esporne degli altri. Qual è l’idea che lei si è fatto su ciò che accadde nelle acque livornesi la sera del 10 aprile 1991?
La mia ipotesi non esclude come causa principale l’incidente non preventivato, nebbia o non nebbia, ma occorre allargare il quadro di insieme dei fatti per verificare le concause che hanno sviluppato la dinamica della collisione e verso le quali mi sono concentrato. Il Moby Prince navigava all’interno di un teatro operativo militare e non solo in un porto civile, infatti c’erano numerose navi militarizzate dal governo americano in funzione di trasporto di armi ed esplosivi da e per la base di Camp Darby, alcune delle quali assolutamente sconosciute alle autorità italiane ed operative contro ogni accordo bilaterale e regola condivisa. Più importante è quel che riguarda l’ipotesi di un traffico di armi in favore della Somalia posto in essere da soggetti italiani, la sera del 10 aprile 1991, nascosto sotto il più ampio ombrello americano che nessuno nei fatti controllava e condotto clandestinamente ma, presumibilmente, non sconosciuto al governo italiano pro tempore, che lo ha sostanzialmente avallato delegando quelle strutture preposte per le operazioni in tal senso almeno dal 1986, tali identificabili in quei settori più specializzati della intelligence militare in quegli anni attivi e successivamente smantellati.
Il Moby Prince ha navigato nel bel mezzo di un ampio movimento di armi fra navi ufficialmente note ed altre del tutto ignote fra le quali quella definita “fantasma” dalla procura procedente che si ipotizza avesse il ruolo di “balena”, laddove questa non fosse stata in realtà il vettore principale dei trasporti già presente a Livorno ed identificabile presumibilmente nella nave fattoria (il XXI Oktobeer II) coinvolta nelle ricerche di Ilaria Alpi prima della sua morte. Per certo c’era una nave che nessuna indagine ha saputo identificare. Capire se questa fosse una “balena” in attesa al largo oppure il noto XXI Oktobeer II ormeggiato a Livorno ci consentirebbe ancora oggi di comprendere molte notizie non meglio elaborate dagli inquirenti di più procure. Le mie attività professionali mi hanno poi portato a raccogliere altri importanti elementi.

Questi importanti elementi corrispondono forse al coinvolgimento di realtà mediorientali, di cui in passato lei ha parlato?
Esatto. Ho conosciuto nei primi anni novanta all’Isola d’Elba alcuni cittadini israeliani specialisti in materia di sicurezza privata, che operavano anche in favore della società armatrice del Moby Prince, alcuni dei quali mi hanno riferito di essere stati a Livorno anche prima dell’incarico ufficiale nella compagnia Na.va.rma. Ho ricostruito la loro presenza anche la sera della tragedia. Questi sono stati successivamente identificati dalla polizia ed il Sismi di Firenze li ha classificati come ex operatori dell’intelligence israeliana. Due di questi avevano il compito di monitorare un cittadino libanese di origine palestinese residente a Firenze ed in contatto con un sottufficiale dei carabinieri in servizio a Livorno, che nei fatti lo usava come fonte ricambiandolo con l’aiuto per i permessi di soggiorno e per la sua attività; i due si erano conosciuti durante la prima missione italiana svolta in Libano fra il 1982 ed il 1984, ove il palestinese aveva cooperato con l’intelligence del contingente tramite l’aliquota del “Tuscania”. Questo palestinese-libanese, oggi proprietario di un Kebab a Firenze, appariva essere interessato alla fornitura di armi in favore palestinese, armi che transitavano anche da Livorno, ipotizzando che provenissero dai carichi inviati in Somalia ed in parte distratti in tal senso. Gli israeliani erano a conoscenza di questo ed hanno presumibilmente rapportato gli ex colleghi o forse erano stati da questi già delegati per tale osservazione. Da tener ben presente il fatto che l’osservazione da parte di operatori israeliani, civili ma in contatto con gli ex colleghi o agenti veri e propri, nei confronti delle attività dei militari italiani di stanza a Livorno ed impegnati con la Somalia si è protratta almeno fino alla fine della missione “Ibis”, successivamente svolta nel Corno d’Africa. Di contro vi era l’osservazione da parte italiana di questi israeliani, che avveniva anche tramite una “centrale” sita in un anonimo appartamento di via Solferino, a Livorno, in cui operavano anche dei sottufficiali della Folgore poi transitati al Sismi. Centrale che riferiva non solo ai livelli superiori italiani ma anche allo Shape (quartier generale della Nato). L’osservazione ed il monitoraggio da parte israeliana avveniva grazie all’uso di un normale piccolo peschereccio che affittavano da degli italiani in cambio di soldi, col quale navigavano nel triangolo Livorno-Piombino-Elba, presumibilmente lo stesso peschereccio utilizzato la sera del 10 aprile 1991 quando, per ragioni sconosciute, prima è andato in fiamme e poi è affondato, a causa di uno scontro - si suppone - con coloro che tutelavano il trasporto di armi verso la Somalia. Essi, di cui almeno tre erano a bordo di un gommone veloce, e forse gli stessi visti a ridosso del Moby Prince, dopo la collisione non hanno dato risposta e si sono dileguati velocemente, contestualmente alla nave fantasma.
Tornando al coinvolgimento israeliano, desidero sottolineare il fatto che alla procura procedente ho sempre testimoniato che gli israeliani da me indicati erano degli ex militari in servizio all’interno di una società privata di sicurezza e che è stato il Sismi di Firenze ad identificarli come operatori del Mossad; personalmente non ho mai utilizzato la parola Mossad in nessuna delle mie testimonianze come non ho mai parlato di terroristi palestinesi presenti nel porto di Livorno la sera della tragedia, né ho mai parlato di una battaglia fra il Mossad e questi terroristi come invece mi è stato attribuito. Vi sono i video e le registrazioni dei miei interrogatori a conferma di questo e del fatto che non ho mai indicato il XXI Oktobeer II come la nave affondata bensì il piccolo peschereccio.

Ha avuto ulteriori riscontri circa quest’incredibile ipotesi di traffico navale illegale atto al trasporto d’armi?
Ho ipotizzato in forza del quadro ricostruito che la sera del 10 aprile 1991 le acque livornesi siano state il luogo in cui è avvenuto uno scontro che per ragioni ancora ignote ha sviluppato un movimento di navi e di imbarcazioni più piccole tali da produrre le concause della collisione fra il traghetto e la petroliera. Anche in ragione del fatto che le comunicazioni apparivano mascherate e questo era plausibile sia per gli strumenti utilizzati dagli americani che per quelli in uso agli israeliani. In via del tutto ipotetica ho suggerito l’idea di una presenza a bordo del Moby Prince di una aliquota di operatori israeliani. Durante la mia attività di soccorso che è durata dalla sera del 10 al 19 aprile 1991 avevo potuto contare i corpi progressivamente estratti dal traghetto, che erano 147, ma, come ho detto nei miei interrogatori, c’era una gran confusione all’hangar “Karin B” per cui è probabile che siano stati contati dei corpi o parte di essi più volte tanto da superare i 141 poi accertati.
Nei miei contatti con gli ex colleghi italiani ancora in servizio alla Folgore e quelli americani delle basi Nato in Italia ed in Germania ho avuto modo di confrontarmi con chi sembrava sapere di più rispetto agli eventi di quella sera, specialmente laddove il mio interesse era quello di acquisire documenti o nominativi di coloro capaci di raggiungere della documentazione relativa allo scambio di informazioni e di rapporti fra i vari livelli di sicurezza ed il loro livello superiore. Inoltre avevo un collegamento diretto con il battaglione americano che gestiva il trasporto della armi, l’839th, perché la madre del mio primo figlio, poi deceduto, operava proprio nell’ufficio del “Terminal Livorno” e conosceva appieno sia i nominativi delle navi di volta in volta militarizzate che le varie procedure di sicurezza utilizzate per proteggere i trasporti da parte sia della intelligence militare di Camp Darby e della polizia militare americana che dei Carabinieri della Setaf. Proprio tramite questi canali amicali ho tentato di ricostruire l’organico di chi era in servizio la sera della tragedia, fra italiani ed americani, sia al porto che in base e soprattutto a Coltano, in cui vi era una compagnia delle trasmissioni capace di monitorare e comunicare con i comandi europei e statunitensi, ma soprattutto ho tentato di avere certezza rispetto all’impiego di un Mobile Satellite Terminal presente dentro la base di Camp Darby e non a Coltano. Alcuni nomi li ho fatti alla magistratura, con uno dei quali ho avuto un confronto dal quale è emerso che i trasporti di armi potevano essere effettuati anche via terra e non solo tramite il canale dei navicelli, che a bordo delle navi militarizzate potevano esserci operatori di sicurezza armati della US Navy oppure dei contractors e che, quando questi smontavano la sera, durante i trasbordi le operazioni invece che concludersi come previsto dalle regole continuavano con il diretto controllo degli americani anche in ore notturne.

Nel novembre 2007 lei è stato vittima di un episodio di aggressione da parte di ignoti. Può aiutarci a comprendere cosa le è accaduto precisamente?
Unitamente al dottor Palermo - legale dei familiari delle vittime - eravamo a Pisa in attesa di incontrare un dipendente italiano della base di Camp Darby indicatomi da un mio ex collega della Folgore come soggetto idoneo per avere dettagliate notizie. L’intenzione era quella di effettuare un interrogatorio da parte del dottor Palermo per poi notiziare la procura procedente, ma evidentemente o lui oppure io stesso eravamo monitorati ed è intervenuta una squadra che ha deciso di aggredirmi rinchiudendomi nella mia auto ed appiccando poi un incendio.

Cosa volevano ottenere questi ignoti da lei? Volevano forse ucciderla?
Non uccidermi altrimenti avrebbero potuto farlo pur non escludendo che sarei potuto morire bruciato; credo che sia stata una azione dettata dalla emergenza e protesa a interdire la fonte che era in macchina con me, ove avevo precedentemente installato degli ambientali, che poi è stata data alle fiamme con me dentro.

A seguito dell’aggressione lei inviò una lettera pubblica al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Tra gli struggenti contenuti se ne legge una parte in cui denuncia “costanti pressioni, intimidazioni, minacce, forme di discredito feroci” nei suoi confronti. In che modo e da parte di chi sarebbe avvenuto tutto ciò?
La minaccia è uno strumento psicologico, una percezione difficile da produrre in una denuncia senza elementi che ne dimostrino i contenuti. Basti pensare all’immediata apertura di una indagine contro di me, a distanza di pochi giorni dall’aggressione, per illecite intercettazioni poi archiviata perché non c’era nulla di serio. Era proveniente da Verona, la stessa città di origine di uno degli aggressori come descrissi la sera stessa dell’evento alla polizia intervenuta. Denuncia prodotta a tavolino da soggetti capaci di elaborarla grazie alla perfetta conoscenza delle mie attività e soprattutto grazie all’accesso ai fascicoli operativi che mi riguardavano; solo chi appartiene ad un corpo di polizia o di sicurezza può avervi accesso. Denuncia che ha consentito di sequestrarmi ogni cosa, tutti i pc, le memorie, i documenti, impedendomi così di lavorare e ponendomi un bel piede in testa tramite il procedimento penale attivo contro di me che certamente ha condizionato i miei committenti, atteso che ne parlarono i giornali, limitando drasticamente il mio lavoro e le mie entrate. Nella mia storia professionale che inizia nel 1985 vi sono decine di episodi in tal senso in cui la denuncia diventa uno strumento estorsivo e non un mezzo di giustizia. A questa denuncia ha fatto seguito una verifica della Guardia di Finanza che non ha portato a nulla salvo il macchiarmi la reputazione agli occhi del vicinato. Dopo i carabinieri e i titoloni sui giornali, è stato fatto il vuoto intorno a me e a mia moglie, oggi diventata ex moglie. Questo è l’obiettivo di chi attiva tali forme intimidatorie, fare terra bruciata intorno, isolare, mettere in dubbio l’onestà divulgando false notizie di polizia in favore di soggetti del tutto estranei alle forze dell’ordine, tanto che un poliziotto è stato condannato in via definitiva per questo reato nei miei confronti dopo la mia denuncia.
Ho dovuto lottare e faticare, parlando coi fatti, per riconquistare la fiducia degli avvocati che mi delegavano le consulenze per l’assistenza ai minori oggetto di reato che ho svolto fino al 2011. Purtroppo il mio lavoro ha comunque avuto una flessione rispetto a prima proprio per il “chiacchericcio” divulgato ad arte da soggetti che per l’ufficio ricoperto hanno una conseguente credibilità sociale, come per esempio il poliziotto poi condannato.

Mi soffermo su questa lettera perché c’è almeno un altro passaggio che merita un approfondimento. Ad un certo punto lei scrive qualcosa che appare oltremisura incredibile a chi confida nelle Istituzioni, ovvero “mi consigliano di suicidarmi, di uccidermi, altrimenti morirà mia moglie”. Mi scusi se sono indiscreto, ma intendo chiederle di spiegare queste induzioni al suicidio che avrebbe subito…
Come ho detto la minaccia è una percezione difficile da far comprendere, si esprime con segnali, ammicchi, frasi dette da soggetti per esempio incontrati casualmente in una strada affollata. In una di queste occasioni ho potuto seguire un tizio incrociato mentre ero a Roma per poi andare dai carabinieri a denunciarlo, ma è stato inutile. Che denunci? Una frase detta da un sostanziale sconosciuto senza nemmeno poterla dimostrare - o meglio dettagliare - a chi dovrebbe poi informare un magistrato per evidenziare una potenziale notizia di reato. Per questo decisi di scrivere una lettera aperta al Presidente, ma mi fu risposto che ero un personaggio “chiaccherato” per cui evinsi che alla fine il gioco di tirarti la cacca e poi dire che puzzi paga e paga sempre perché nessuno vuole sporcarsi.

Si sente a tutt’oggi minacciato?
No, sono stato del tutto screditato, denigrato e sostanzialmente ho perso tutto, per cui il risultato è stato raggiunto, l’esempio da dare a chi volesse parlare è ben chiaro, mi trovi lei un militare che abbia il coraggio di rinunciare a tutto per parlare del Moby Prince.

Lei è dell’opinione che vi sia stato un importante apparato di copertura e di organizzazione di quel traffico di armi con la Somalia. Pensa esistano ancora spiragli affinché si possa far luce su quei fatti, così da rendere giustizia alle centoquaranta vittime del Moby Prince? Stati Uniti e Israele (nei loro apparati militari) possono essere d’aiuto in questo senso?
Per certo la copertura è stata la stessa che ha occultato l’esistenza di quelle strutture ad ordinamento cellulare e riservato, poi emerse nel corso dei primi anni novanta. Spiragli ve ne sono ancora, basta approfondire quel che non è stato coltivato nelle indagini, specialmente nel settore americano perché sono sicuro che la sera della tragedia l’intelligence abbia prodotto
materiale informativo americano ancora potenzialmente valutabile per meglio comprendere le eventuali concause della collisione. Per gli israeliani basterebbe interrogare quegli operatori che il Sismi ha anagraficamente identificato come ex appartenenti ai servizi di Israele, alcuni dei quali ancora residenti in Italia, e magari accertarsi relativamente alla natura dell’incarico ricevuto dalla Na.va.rma e delle date di attivazione del servizio erogato a bordo delle navi e dei locali di pertinenza dell’armatore. Per raggiungere la verità occorre scegliere tra due ipotesi: la prima, dimostrare un avvenuto traffico di armi così importante tramite la semplice indagine effettuata da una procura ordinaria su un incidente navale; la seconda, indagare il traffico di armi in tal senso tramite un apparato di spessore, anche una commissione di inchiesta, per poi evidenziarvi le concause della collisione. Anche solo per conoscere la certa verità storica, altrimenti vi sarà sempre lo spazio per ogni ipotesi, con il conseguente impedimento per i parenti delle vittime di elaborare il proprio lutto. La scia del Moby Prince raggiunge direttamente la Somalia ove ancora vi sono segreti che potrebbero far luce su tutti quei morti a vario titolo legati al rapporto fra Italia e Somalia, specialmente prima della caduta del presidente Siad Barre avvenuta nel 1991. Segreti che non stanno in Somalia ma in qualche cassetto romano e certamente in molte medaglie livornesi...

Federico Cenci Agenzia Stampa Italia

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