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Da Hillsborough al Massimino, la colpa non è sempre dei tifosi

(ASI) In Inghilterra, il 15 aprile del 1989 morirono novantasei persone nello stadio di Hillsborough durante la semifinale della FA cup tra Liverpool e Nottingham Forest. La colpa della tragedia venne subito data ai tifosi del Liverpool che venivano considerati violenti ed ubriachi.

Dopo ventitre anni dalla strage, finalmente, è venuta fuori la verità: quelle morti non furono causate dagli hooligans ma dall’incapacità degli agenti della polizia inglese nel gestire la situazione. L’inchiesta giuridica, partita tre anni fa sotto la guida del vescovo di Liverpool James Jones, ha portato alla luce una serie di false informazioni che la polizia aveva fornito per coprire le proprie responsabilità.

La giornata di quel funesto 15 aprile del 1989 doveva essere una giornata all’insegna dello sport e del divertimento e, invece, si è trasformata nella più grande tragedia dello sport inglese.  Il primo ministro inglese David Cameron, ha chiesto pubblicamente scusa alle famiglie delle vittime «da parte del governo e da parte dell’intera nazione» e ha aggiunto di essere «profondamente dispiaciuto che questa doppia ingiustizia sia stata avallata così a lungo». «Finalmente siamo arrivati a una verità incontrovertibile, molti innocenti, tra cui donne e bambini, avrebbero potuto essere salvati. I tifosi del Liverpool non sono stati la causa del disastro e l’ubriachezza non è stata un fattore significativo», ha commentato il deputato laburista Steve Rotheram.

In  Italia, l’agente di Polizia Filippo Raciti, ha trovato la morte il 2 febbraio del 2007 durante gli scontri avvenuti fuori lo stadio di Catania dove si stava svolgendo il derby contro il Palermo. Le indagini sulla morte del poliziotto portarono subito all’arresto di un indiziato minorenne, Antonio Speziale, avvalendosi dei filmati dei circuiti di sicurezza dello stadio e di successive intercettazioni ambientali. Le immagini dei violenti scontri fecero il giro del mondo e la condanna di quanto successo fu unanime.

Speziale, al tempo dell’arresto minorenne, venne condannato il 9 febbraio del 2010 per omicidio preterintenzionale a quattordici anni di reclusione. Poi il 21 dicembre del 2011, la Corte d’Appello, sempre per omicidio preterintenzionale, ha ridotto la pena a otto anni. Ma c’è qualcosa che non torna. Giuseppe Lipari, avvocato difensore di Speziale, subito dopo la sentenza, aveva dichiarato che «la morte di Raciti fu causata da un collega» e aveva aggiunto che «l’evento giudiziario è stato scandaloso». Perché? Secondo la ricostruzione la morte di Raciti sarebbe dovuta da un pezzo di lamiera che Antonio Speziale avrebbe prima raccolto e poi scagliato a mo’ di ariete, contro di lui. Ma le telecamere fisse dello stadio «Massimino» di Catania non riprendono le immagini del contatto. Giuseppe Lo Bianco e Piero Messina, articolisti dell’Espresso, l’8 marzo del 2007 scrivono: «Due telecamere fisse riprendono l'unica carica cui partecipa l'ispettore Raciti, riconosciuto con certezza dal casco opaco, ricordo del G8 di Genova, dai gradi sulle spalline e dall’assenza dei parastinchi. La prova più forte dell’accusa è un “combinato disposto di due filmati realizzati da due posizioni diverse”. Le riprese non sono complete perché entrambi gli obiettivi non colgono l’eventuale contatto. La prima telecamera puntata verso l'interno della Nord riprende i tifosi che raccolgono un pezzo di lamiera, probabilmente un coprilavabo in alluminio con delle spalliere, che pesa circa cinque chili. Si intravedono altre cinque o sei persone, non riconosciute, che insieme ad Antonio raccolgono quella sbarra e la lanciano “a parabola”. L'altra telecamera è puntata verso l'esterno e ritrae i poliziotti che si dirigono verso l’ingresso della curva Nord. Viene ripreso anche il momento in cui la lamiera cade per terra sollevando polvere».

E poi c’è di più, la testimonianza messa a rapporto di un agente di polizia che guidava durante gli scontri una jeep discovery: «Innescata la retromarcia ho spostato il discovery di qualche metro. In quel momento ho sentito una botta sull'autovettura ed ho visto Raciti che si trovava alla mia sinistra portarsi le mani alla testa. Ho fermato il mezzo e ho visto un paio di colleghi soccorrere Raciti ed evitare che cadesse per terra». Sempre l’Espresso e sempre a firma di Giuseppe Lo Bianco e Piero Messina, il 31 maggio del 2007, pubblica l’inchiesta «Raciti la pista è blu» dove vengono riportati i risultati degli investigatori del Ris di Parma che erano stati chiamati in causa per stabilire se l’ispettore di polizia fosse stato ucciso da quel pezzo di lamiera lanciato da Speziale. Nell’articolo si legge che «i carabinieri scientifici più famosi d'Italia hanno sostanzialmente escluso questa ipotesi: non c'è nessun elemento che la confermi. Hanno persino colpito per 14 volte un manichino con un oggetto identico, ottenendo lo stesso risultato: se fosse stato un uomo, sarebbe rimasto vivo. Le analisi degli specialisti guidati dal colonnello Luciano Garofano, incrinano le certezze granitiche della Procura dei minori di Catania. E fanno strada a nuovi indizi, tali da rilanciare l'ipotesi di un impatto mortale con la jeep discovery della polizia. Una tesi che il consulente della difesa, Carlo Torre, il perito di Cogne, mette nero su bianco: “Il complesso lesivo si adatta benissimo ad un trauma di tipo automobilistico”».

Il 22 marzo del 2013 si svolgerà l’ultimo atto del processo, presso la quinta Sezione penale della Cassazione dove il legale di Speziale, chiederà, molto probabilmente, l’annullamento della sentenza o l’assoluzione. Come andrà a finire il processo, ad ora, non lo sappiamo. Però sappiamo per certo che cercare un capro espiatorio non è giusto né per la memoria di Raciti né per il giovane Speziale. Ma forse, anche per questo caso, dovremo aspettare molti anni affinché venga a galla la verità. E magari, il primo ministro di turno, chiederà anche scusa.

Fabio Polese per Agenzia Stampa Italia

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