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Ilva. Una vecchia storia italiana.

(ASI) Il Tribunale di Taranto ha stabilito che la più grande acciaieria d’Europa inquina e avvelena l’ambiente, compromettendo la salute pubblica, nonostante anni di denunce e vittime innocenti. La reazione dei 15.000 operai, compresi quelli dell’indotto, è di forte contrarietà, preoccupati per un futuro lavorativo a rischio. La sentenza di per sé ha una portata rivoluzionaria perché sancisce finalmente il principio della tutela della salute pubblica che giaceva sulla carta senza trovare sostanziale applicazione. E’ probabile che l’ Ilva riprenderà la normale produzione e le sue polveri nere continueranno a uccidere gli abitanti dei quartieri limitrofi, tra i quali ci sono molti dei lavoratori che versano nella paradossale posizione di vittime e carnefici di se stessi: così gli operai saranno stati beffati dall’illusione di essere scampati al peggio, plagiati dal dogma di un futuro ineluttabile. La questione coinvolge interessi diversi e contrapposti la cui composizione richiederebbe un’opera coraggiosa di mediazione e compromesso, per ripartire però da presupposti inediti; ma come abbiamo detto, le cose molto probabilmente non andranno così, causando in chi scrive la sgradevole frustrazione di doversi trovare a redigere l’ennesimo necrologio del buon senso. Scrivere di cronaca nel nostro Paese equivale ormai a raccontare di marcio, sempre e comunque, e non per una personale perversione della categoria o per la generale tendenza del settore editoriale a fare dello scandalo l’unica forma di offerta commerciale, quanto perché nella gestione della cosa pubblica sembra smarrito completamente il contatto con la realtà. Duole, ancora una volta, ritrovare nella classe politica il responsabile di una situazione lasciata alla gangrena, a causa della sua sconvolgente apatia di fronte alle più tragiche evidenze. Non serviva quest’ultima inchiesta giudiziaria per accorgersi che a Taranto si moriva di cancro; non è servita la sentenza che già condannò la proprietà per le contaminazioni da amianto ai danni dei soliti lavoratori.

Perché questo Paese non riesce a destarsi dal suo torpore, svegliato bruscamente solo dai sussulti di emergenze e disastri preannunciati? Adesso sarebbe troppo facile trovare il capro espiatorio nell’individuo, nel grande capitano d’azienda che all’improvviso diventa il padrone senz’anima, stessa sorte di quei dittatori che per decenni hanno torturato e affamato i loro popoli impunemente, sotto lo sguardo placido degli amici di convenienza. In questa ennesima brutta storia di mala Italia, anche i sindacati recitano l’unico copione che conoscono, paventando il rischio di una grave emergenza sociale nell’ipotesi in cui lo stabilimento tarantino dovesse chiudere i battenti, come se centinaia di decessi per cancro non rappresentassero una grave emergenza sociale. Non si vogliono qui sottovalutare le conseguenze di una soluzione estrema, tuttavia, continuando a declinare ogni accadimento sociale in termini unicamente economici, senza considerare che anche la salute, l’ambiente, la cultura, concorrono complessivamente al benessere generale, gli organismi rappresentativi disattendono la funzione loro delegata, che non è quella di assecondare e domare gli impulsi dell’istinto ma di elevare il livello di consapevolezza individuale al fine di una generale propensione al progresso sociale.

 

Fabrizio Torella - Agenzia Stampa Italia

 

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