(ASI) Riceviamo e Pubblichiamo da Carlo Di Stanislao.
"La giustizia è la regola dell'amore. Solo l'ingiustizia può essere regolata dal potere." — Simone Weil
Il 19 luglio 2025 segna una fase delicata e carica di tensioni nel rapporto tra i poteri dello Stato. Il dibattito sulla riforma della giustizia si è trasformato in uno scontro politico e istituzionale di ampie proporzioni, che coinvolge direttamente il Governo, la Magistratura e le forze parlamentari di Opposizione. Al centro del confronto vi è una serie di provvedimenti approvati dalla Camera dei Deputati e in attesa di esame e voto definitivo al Senato, destinati a incidere profondamente sull'equilibrio tra potere giudiziario ed esecutivo.
Cosa ha approvato la Camera
Uno dei nodi più controversi è la separazione delle carriere dei magistrati, una riforma di natura costituzionale che prevede l'istituzione di due Consigli Superiori della Magistratura distinti: uno per i giudici e uno per i pubblici ministeri. L'obiettivo dichiarato del Governo è garantire una maggiore imparzialità e una netta distinzione tra chi esercita la funzione giudicante e chi rappresenta l'accusa. Il progetto include anche la creazione di un'Alta Corte disciplinare che dovrebbe occuparsi delle sanzioni nei confronti dei magistrati, sollevando il Consiglio Superiore della Magistratura dalle funzioni disciplinari.
Secondo l'Esecutivo, si tratta di una riforma di "civiltà", tesa a rafforzare la terzietà del giudice e a impedire quella commistione tra pubblica accusa e giudizio che, a loro dire, avrebbe prodotto nel tempo una giustizia "militante" o "ideologica". Per la Magistratura, però, questa riforma rappresenta un attacco diretto alla sua indipendenza. L'ANM, l'associazione di riferimento delle toghe, ha parlato apertamente di un progetto pericoloso, che rischia di subordinare la funzione requirente alle pressioni del potere politico, mettendo a rischio l'autonomia dell'intero sistema giudiziario.
Un altro provvedimento approvato alla Camera è la cosiddetta legge Zanettin, che interviene in maniera drastica sulla disciplina delle intercettazioni. La norma impone un limite massimo di 45 giorni complessivi per le intercettazioni ambientali e telefoniche, prorogabili solo con provvedimenti motivati che giustifichino l'effettiva necessità investigativa. L'intento dichiarato è quello di tutelare la riservatezza dei cittadini e contrastare la spettacolarizzazione delle indagini.
Tuttavia, molti operatori del diritto, magistrati e rappresentanti della società civile hanno sollevato forti perplessità. Il timore è che la rigidità del limite temporale possa compromettere l'efficacia delle indagini, specialmente in contesti delicati come quelli di criminalità organizzata, traffico di droga, terrorismo e corruzione. In queste aree, le indagini si sviluppano su tempi lunghi e spesso solo grazie a intercettazioni prolungate si riesce a ricostruire trame complesse e strutture occulte.
Il pacchetto di riforme comprende anche misure urgenti sul processo penale e sulla prescrizione, che mirano a snellire i procedimenti, ridurre i tempi di celebrazione dei processi e migliorare la tutela delle vittime. Tra le novità più significative si segnalano l'accelerazione delle notifiche, l'introduzione di strumenti digitali per le udienze e la revisione del sistema delle misure cautelari. In particolare, viene potenziato l'uso di strumenti come i braccialetti elettronici per garantire la sicurezza delle vittime nei casi di violenza domestica e stalking.
Un altro tassello riguarda i magistrati onorari, figure essenziali nel funzionamento quotidiano dei tribunali italiani. Con il testo approvato, vengono introdotti limiti di orario (36 ore settimanali), tutele previdenziali e possibilità di stabilizzazione per quanti operano da anni in condizioni di precarietà.
Iter al Senato
Il disegno di legge costituzionale sulla separazione delle carriere è stato incardinato al Senato e sarà messo in votazione il 22 luglio 2025. Essendo una riforma costituzionale, l'approvazione richiede una doppia lettura conforme da parte di entrambe le Camere. Se il testo sarà approvato anche in seconda lettura senza il quorum dei due terzi, si procederà a referendum costituzionale, già previsto indicativamente per giugno 2026. Le norme ordinarie, una volta approvate definitivamente, saranno promulgate dal Presidente della Repubblica ed entreranno in vigore nei tempi previsti.
Raffronti internazionali: Europa, mondo latino, arabo e oltre
Nel confronto con altri ordinamenti democratici, emergono somiglianze e differenze significative.
Negli Stati Uniti, la separazione tra giudici e pubblici ministeri è assoluta: i procuratori sono eletti o nominati politicamente e appartengono all'esecutivo, ma operano sotto stretto controllo democratico e secondo regole molto precise. Le intercettazioni richiedono autorizzazioni formali molto rigide e hanno limiti di tempo molto severi.
In Francia, la struttura è di tipo napoleonico, con giudici e pubblici ministeri formati dallo stesso concorso e inquadrati nella magistratura, ma con garanzie crescenti di autonomia. Il pubblico ministero resta però legato al Ministero della Giustizia, che può influire sulle priorità delle indagini.
In Germania, i pubblici ministeri sono anch'essi sottoposti all'esecutivo, ma le garanzie procedurali e il sistema altamente regolato offrono protezioni notevoli contro abusi. Le riforme tedesche degli ultimi decenni hanno puntato più sull'efficienza che sulla separazione netta dei ruoli.
Nel mondo latinoamericano, la giustizia è spesso al centro di pressioni politiche. In Brasile, i magistrati hanno poteri ampi e l'indipendenza è forte sul piano normativo, ma fragile sul piano politico. Il caso "Lava Jato" ha mostrato una magistratura potente ma esposta al sospetto di strumentalizzazione. In Messico o Argentina, la lotta tra potere giudiziario e politico è continua, spesso accompagnata da accuse di corruzione o inettitudine.
Nel mondo arabo, la giustizia è spesso subordinata all'esecutivo. In Egitto e Arabia Saudita, la magistratura è parte del potere statale in senso lato, senza reale indipendenza. In paesi come Tunisia e Marocco, vi sono tentativi di modernizzazione ispirati al modello francese, ma permangono forti limiti strutturali e culturali. Le riforme sono lente, ostacolate da instabilità politica e retaggi autoritari.
Giustizia nel mondo antico
Nell'Antica Grecia, la giustizia era parte integrante della vita politica. Ad Atene, il tribunale popolare (l'Elièa) era composto da cittadini sorteggiati, espressione della democrazia diretta. Non esisteva una classe togata, ma l'amministrazione della giustizia era parte della responsabilità civica. La legge era scritta, ma interpretata con ampio margine dai giudici popolari.
A Roma, la giustizia fu inizialmente esercitata dai patrizi e solo con le XII Tavole si raggiunse una certa equità formale. Durante il periodo repubblicano, la giustizia si articolava tra pretori, questori e senatori. Con l'Impero, l'amministrazione della giustizia divenne più centralizzata, e il diritto romano codificato sotto Giustiniano divenne la base di gran parte del diritto europeo moderno. Tuttavia, l'accesso alla giustizia era spesso legato allo status sociale, e la separazione tra potere politico e giudiziario era inesistente: l'imperatore era legislatore, giudice e, spesso, parte in causa.
Nel mondo ebraico antico, la giustizia era saldamente ancorata alla legge religiosa, la Torah, e amministrata da giudici-scribi che dovevano interpretare e applicare norme divine. In Mesopotamia, il codice di Hammurabi fu uno dei primi esempi di legge scritta, con pene severe ma strutturate secondo una logica di proporzionalità.
Nel mondo islamico medievale, la giustizia era amministrata dai qadi, giudici religiosi che applicavano la shari'a, ossia la legge islamica derivata dal Corano e dalla Sunna. I qadi godevano spesso di una certa autonomia, ma il potere politico poteva condizionarli in funzione della stabilità del califfato o del sultano di turno. L'indipendenza non era intesa come in senso moderno, ma esisteva una concezione morale e comunitaria molto forte della giustizia, fondata sul concetto di equità e misericordia.
Una giustizia da riformare, ma non da controllare
La giustizia, come istituzione fondante dello Stato di diritto, rappresenta molto più di un meccanismo tecnico: è il luogo in cui il patto sociale trova compimento, in cui il cittadino misura l'equità del potere, e dove l'autorità trova il proprio limite nella legalità. Per questo motivo, ogni intervento sul suo funzionamento richiede non solo competenza tecnica, ma consapevolezza storica, sensibilità istituzionale e rispetto per gli equilibri costituzionali.
Il dibattito attuale in Italia si muove su un crinale pericoloso. Le riforme sono necessarie, anzi doverose. Non si può più tollerare una giustizia che lascia prescrivere processi dopo anni, che si arena tra udienze rinviate, notifiche fallite e burocrazia esasperante. Ma è altrettanto inaccettabile che la leva dell'efficienza venga usata come pretesto per limitare o controllare l'autonomia del potere giudiziario.
Come ammoniva Norberto Bobbio, uno dei più grandi giuristi e filosofi del diritto del Novecento, "Lo Stato di diritto è fondato sull'idea che anche chi governa è sottoposto alla legge. Il diritto non serve a rendere più forte il potere, ma a limitarlo." Questo principio non è negoziabile. Senza un giudice realmente indipendente, non esiste libertà personale che tenga, non esistono diritti che possano dirsi garantiti, non esiste giustizia che sia davvero giustizia.
A ciò si aggiunge la riflessione del giurista francese Montesquieu, che già nel Settecento affermava: "Tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo o lo stesso corpo, sia di nobili, sia di popolo, esercitasse i tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le decisioni pubbliche, e quello di giudicare i delitti e le liti dei privati." È il principio della separazione dei poteri, fondamento di ogni democrazia matura, oggi più che mai minacciato da derive centralizzatrici o da logiche di rivalsa politica.
Nel nostro tempo, il compito della politica non è di piegare la giustizia al consenso, né quello della magistratura di erigersi a potere supremo. Serve equilibrio, rispetto delle regole, trasparenza e partecipazione.
Ma sorge allora una domanda inevitabile, che molti cittadini e osservatori pongono con crescente inquietudine: potrà davvero portare avanti una riforma equilibrata e rispettosa delle libertà un governo che, a parole, si erge a paladino della libertà ma che, nei fatti, sta progressivamente restringendo spazi democratici, limitando l'autonomia dei corpi intermedi, marginalizzando il dissenso e riducendo la trasparenza nei confronti della stampa e della magistratura?
Il rischio è che la bandiera della "libertà" venga usata come strumento retorico per giustificare interventi autoritari. Quando il potere esecutivo si arroga il diritto di stabilire chi sia "giusto" o "sbagliato" tra i giudici, quando si restringono le tutele della riservatezza in nome della sicurezza, e quando si confonde la critica legittima con l'attacco sistematico alle istituzioni indipendenti, non si è sulla strada della libertà, ma su quella del controllo.
Come ammoniva Gustavo Zagrebelsky, "La libertà è fragile: non si vede la sua fine quando si consuma lentamente, quando si spegne un po' alla volta, come una candela in una stanza chiusa." Ecco perché oggi, più che mai, la vigilanza democratica è un dovere collettivo.
Il Paese ha bisogno di una giustizia più rapida, sì. Ma non di una giustizia piegata al potere di turno. Servono riforme serie, condivise, costruite con il contributo di chi conosce il diritto, lo pratica e lo vive ogni giorno nelle aule di tribunale, non dettate dalla propaganda o dal desiderio di vendetta politica.
Solo allora la giustizia potrà tornare a essere quello che la Costituzione vuole: un potere autonomo e indipendente, al servizio della verità, della legalità e della libertà di tutti.
Carlo Di Stanislao
*Immagine creata con AI Microsoft Copilot



