Le aporie del cosiddetto “centro destra”

(ASI) Ho sempre sostenuto che il “centro destra”, dopo la “cura Berlusconi”, era ed è una “finta destra”, inquinata da quell’”anarco capitalismo”, o “anarco liberismo” che era la quintessenza del pensiero dell’uomo di Arcore e questo nonostante gli ultimi successi ottenuti, tra cui quello delle amministrative in Abruzzo (o Abruzzi).


Alcuni aspetti dell’attuale politica del governo Meloni sono indicativi di tale influenza.
Il primo di essi è la politica sulla “Giustizia”.
E’ stato approvato dal Senato il DDL Nordio.
Alla fine è arrivato il via libera del Senato.
E' solo il primo step: la riforma della giustizia ora dovrà affrontare il passaggio a Montecitorio e se non ci saranno intoppi sarà approvato definitivamente.
Non c’è da rallegrarsi e cercherò di spiegare perché.
E quello che mi stupisce è che nessuno sembra essersi reso conto delle contraddizioni di questa riforma e del rischio addirittura di una paralisi soprattutto dei tribunali medi e piccoli.
Ma questo lo si può dire se si affronta e si esamina la portata di una riforma da un punto di vista “normale” e che abbia di mira la giustizia e l’efficienza di una riforma, ma questa ottica “normale”, così la chiamo, è inimmaginabile per una classe politica impegnata in un secolare conflitto con il potere giudiziario e nell’auspicio di una speratarivalsa sul “nemico” giudiziario, dopo la vittoria di quest’ultimo nella stagione di “Mani pulite”.
Oggi bisogna guardare al panorama, infatti, secondo una prospettiva di “guerra civile istituzionale”. Il potere politico, nella sua componente assolutamente maggioritaria,oltre a certe sue appendici giornalistica e forense, non è altro, si è detto, che l’erede del berkusconismo, che è riuscito a modificare anche quelle componenti del cosiddetto “centro destra” che, come gli eredi del vecchio MSI, difendevano, pur con tutti i loro limiti culturali, la funzione dello Stato e della “Giustizia”, cioè di quell’attività statuale deputata alla garanzia, questa sì, di integrale ed equanime applicazione della legge, a favore di tutti i cittadini e di contrasto e repressione della “illegalità”, in tutte le sue varie forme.
Perché la funzione statuale deputata a questo fine e affidata ad una magistratura libera e indipendente dal potere politico e da ogni altro potere, conosce due momenti indefettibili che, solo in un’ottica irresponsabile, oggi vengono visti divisi ma che debbono invece essere uniti perché:
i mezzi sono finalizzati a rendere possibile il fine primario della realizzazione della giustizia, nel rispetto delle garanzie ad esso deputate per tale fine primario.
il fine, la giustizia,è ciò a cui è orientata l’attività statuale, in materia.
Scindere i mezzi dal fine, significa colpire a morte la funzione giudiziaria e separare due realtà che sono l’una in funzione dell’altra ed intimamente connesse.
E’ quello che viene fatto sulla base di premesse culturali che sono mosse da una visione disarticolata del problema e dalle implicazioni politiche di un certo pensiero liberale, forse, meglio ancora,anarco liberale,che deriva dall’empirismo e pragmatismo inglese.
I mezzi e il fine sono elementi essenziali dell’azione umana, secondo una concezione realistica che si ricollega alla Scolastica medioevale e, in particolare, a San Tommaso d’Aquino, ma successive correnti filosofiche, tra cui, guarda caso, Thomas Hobbes affermano una concezione meccanicistica, negano il libero arbitrio e sostengono una natura competitiva ed egoista della natura umana.
Un’azione umana, per essere moralmente lecita, deve avere:
un fine (morale, cioè il soddisfacimento di una nostra inclinazione, l’elemento, appunto, ultimo e finale);
un mezzo (o fine materiale, cioè l’azione materiale o “mezzo” con cui tendiamo al fine morale e cerchiamo di realizzarlo e che si pone come intermedio rispetto al fine);
le circostanze (di tempo e di luogo e la modalità dell’atto in cui si cala la nostra azione);
l’intenzione.
I mezzi “materiale” sono azioni compiute al solo scopo di ottenere qualcos’altro, cioè “il fine”.
Osserva San Tommaso che: “per rendere cattiva un’azione basta un solo difetto:invece perché sia buona in senso assoluto non basta un particolare aspetto di bene ma si richiede una bontà integrale” (Summa Theologiae, I-II, q. 20, a. 2 c.).
Quindi, tra “mezzi” e “fine” c’è un intimo legame”: tra il fine che l’uomo persegue e il mezzo che usa per conseguirlo c’è una relazione di valori e un intrinseco legame di cui è indispensabile tener conto.
Se sono connessi, vuol dire che entrambi debbono essere “morali”, cioè “razionali” e se non è corretto affermare che “il fine”, cioè il bene ultimo, giustifichi “i mezzi”, sarà altrettanto scorretto affermare il contrario, cioè che la “bontà” dei mezzi renderà buono “il fine”.
Oggi non si riflette abbastanza sulle posizioni che si assumono nell’attualità e si è abituati a ragionare per slogans, senza accorgersi che parlare di “garantismo” e di “giustizialismo” come contrapposti significa, rispettivamente, assolutizzare i mezzi a discapito del fine a cui sono predisposti o enfatizzare il fine a discapito dei mezzi e delle garanzie ad essi deputate.
La discussione in Aula è stata avviata il 6 febbraio con la relazione della relatrice Giulia Bongiorno (Lega). Il testo che arriva alla Camera porta profonde novità: scompare l'abuso d'ufficio e si riduce la portata del traffico di influenze illecite limitato a condotte particolarmente gravi; si ampliano i divieti per i giornalisti in materia di intercettazioni; si punta a una maggiore tutela della privacy e viene introdotto il divieto di ascolto dei colloqui tra indagato o imputato e il suo difensore. Inoltre il pubblico ministero non potrà più impugnare le sentenze di assoluzione (a meno che non si tratti di reati particolarmente gravi), sulla richiesta di custodia cautelare in carcere si dovrà pronunciare un giudice collegiale e prima della decisione l'indagato dovrà essere interrogato dal giudice, pena la nullità della misura. Infine un ordine del giorno impegna il governo ad aprire un Tavolo di lavoro per modificare la legge Severino per un riordino dei reati contro la pubblica amministrazione.
Tra i vari aspetti di questa riforma che meritano la più ampia censura, balzano la soppressione del reato di abuso d’ufficio, la riproposizione della limitazione dell’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di assoluzione, la previsione della cognizione in materia di misure cautelari ad un giudice collegiale e quella del previo interrogatorio del destinatario della richiesta di misura, pena la nullità della misura stessa.
Sullo sfondo, c’è ovviamente la misura a cui tiene una larga parte di penalisti della separazione delle carriere.
Questa misura, agognata da tanti politici e avvocati, riemerge sistematicamente in tutti i progetti di riforma.
E’ vero che il reato di abuso d’ufficio andrebbe rivisto, dal punto di vista della tipizzazione della condotta ma una più puntuale previsione dell’elemento oggettivo del reato è una cosa, la soppressione del reato è un’altra. E’ il reato con cui vengono punite le condotte lesive del principio di eguaglianza e del divieto di favoritismi e di discriminazione, le condotte che stanno alla base di pressoché tutti i comportamenti illegittimi che un pubblico ufficiale (o l’incaricato di pubblico servizio) può compiere in danno o a vantaggio del privato.
In un paese con un alto tasso di illegalità come l’Italia, sembra impossibile che si pensi a eliminare un presidio così importante ma, purtroppo, è così.
Si è detto che, col nuovo codice, tutte le parti, private e pubblica, beneficiano di una condizione di parità.
E’ quello che si cerca di garantire con la separazione delle carriere, ignorando disinvoltamente che:
pm e giudici provengono dall’unica magistratura;
sono entrambi organi dello Stato che è il loro “datore di lavoro”;
mentre il pm, come organo pubblico, ha un dovere d’imparzialità ed è tenuto alla ricerca della verità, il difensore deve curare l’interesse del cliente e commette, addirittura, reato se persegue la verità anche a discapito dell’interesse dell’assistito.
Se questo è il fine della separazione delle carriere, prodromica alla soggezione del pm all’esecutivo, quale giustificazione può avere la limitazione dei poteri d’appello del pm in cui, appunto, mentre il difensore può appellare le sentenze di condanna, il pm non potrebbe appellare quelle di condanna ?
E la cosa grave è che si tratta della riproposizione di una riforma, quella dell’on. Pecorella, bocciata dalla Corte Costituzionale alcuni anni fa.
Se questa riforma passerà, con ogni probabilità la Corte la boccerà egualmente e allora mi domando chi risarcirài danniconseguenti al nuovo e identico giudizio di legittimità costituzionale, che prevedibilmente si instaurerà e con identico risultato ?
La previsione del giudice collegiale come quello competente in materia di misure cautelari comporterà la necessità di un collegio di tre magistrati per decidere in merito alle richieste di misure.
Il vantaggio che la classe politica spera di ottenere in materia di maggiore ponderazione è del tutto discutibile anche perché è inutile fingere di ignorare che dei tre il relatore e futuro estensore avrà una cognizione sufficientemente precisa della vicenda processuale, mentre gli altri due componenti si rimetteranno, spesso, al collega relatore e alla sua maggiore conoscenza della vicenda.
Il vantaggio sarebbe, quindi, estremamente limitato.
In compenso, l’inconveniente di dover utilizzare tre giudici che diventeranno assolutamente incompatibili a trattare quel processo porterà specie i piccoli tribunali a dover disporre di altri collegi, quantomeno per la decisione del merito e, quindi, per un solo processo con misura cautelare se ne andranno due collegi, quindi sei giudici.
Non parliamo poi di quei tribunali che, avendo la sede nel capoluogo del distretto di Corte d’Appello, saranno competenti anche per il riesame avverso le ordinanze applicative della misura. Altri tre giudici. Quindi, per questi tribunali i maggiori, un solo processo potrà impegnare ben nove giudici. Alcuni giudici dell’organico potranno essere indisponibili per cause varie. E allora, trovare un collegio disponibile potrà essere un’impresa.
Il previo interrogatorio del destinatario della richiesta di misura imporrà la previa discovery degli elementi di accusa anche nei confronti di concorrenti (che ne verranno subito informati) o, comunque, permetterà l’evidenziazione delle accuse all’indagato con i prevedibili danni alle esigenze delle indagini.
Queste sarebbero le riforme attese dalla giustizia e questo sarebbe l’apporto di un ministro della giustizia che ha fatto, credo da sempre il pm, alle necessità di questo settore fondamentale della vita civile ?
Lo è anche quello dell’”ordine pubblico” e, se è giusta la difesa a spada tratta degli agenti che sono intervenuti per reprimere manifestazioni politiche “debordanti”, pur con la consapevolezza che bisognerà attendere le indagini prima di rendersi conto di cosa sia realmente accaduto e di adottare i conseguenti provvedimenti, rimane il fatto che gli agenti vengono difesi, mentre i magistrati che, nell’ambito della polizia giudiziaria ne sono i capi, non godono di altrettante “simpatie” dal potere politico del cosiddetto “centro destra”. Contraddizione palese e irritante.
Se questa è, a mio avviso, una delle aporie o contraddizioni più vistose, del cosiddetto “centro destra”, nell’ambito interno, cosa può dirsi di analoghe contraddizioni nell’ambito della politica estera ?
Lo scorso primo marzo, il capo del Pentagono, Lloyd Austin, ha fatto una dichiarazione, riportata dall’Ansa, che ha dell’incredibile: “Francamente, se l’Ucraina cade credo davvero che la NATO entrerà in guerra con la Russia”.
Dichiarazioni forse anche più irresponsabile ha fatto recentemente un importante comandante militare del Regno Unito.
Abbiamo capito ? Se l’Ucraina perde, e mi pare una previsione ormai pressoché scontata, la NATO entrerà in guerra contro la Russia. Anche noi italiani, quindi, contro una superpotenza dotata di un imponente arsenale nucleare.
Questi ci stanno catapultando verso l’Armagheddon nucleare.
Chi c’è dietro la NATO, forse il solito Israele ma Israele, tra gli Stati Uniti e la Russia, preferisce una linea più ambigua. Del resto, la sua genesi è staliniana, sin dal 1948, quando fu l’Unione Sovietica e i satelliti di allora a riconoscerlo per primo, il 17 maggio 1948, solo tre giorni dopo la sua nascita e fu il Patto di Varsavia e in particolare la Cecoslovacchia ad armarlo con le armi Skoda.
L’URSS favorì inoltre una massiccia immigrazione di ebrei sovietici, che furono la metà di tutti gli immigrati in Israele tra il 1948 e il 1951.
Poi, dopo la guerra dei “Sei giorni”, Israele ha cambiato “padrino”, ma ha continuato a mantenere buoni rapporti con l’URSS e, poi, con la Confederazione russa.
No, dietro la NATO, ci sono gli USA e il Regno Unito, le due potenze anglosassoni, dalla storia diversissima, ma accomunate dagli aspetti economici e geopolitici.
E le potenze anglosassoni si portano dietro il loro odio misterioso contro la Russia, una russofobia che sembra affondare le sue radici nell’aspetto religioso perché, mentre gli Stati Uniti hanno un DNA calvinista puritano e il Regno Unito, nato cattolico, ha abbracciato lo scisma anglicano, una sorta di via di mezzo tra il cattolicesimo romano e la Riforma, per un “capriccio” matrimoniale di Re Enrico VIII e poi ha cercato di “giustificarla”, recependo parzialmente aspetti del calvinismo, la Russia ha la piena successione apostolica come la Chiesa di Roma da cui si distacca, in pratica, solo per il “Primato di Pietro”, oltre a differenze sulla processione dello Spirito Santo che, per gli orientali, procede solo dal Padre, mentre, per i cattolici, “anche dal Figlio”, congiuntamente.
La minaccia di “Armagheddon” nucleare formulata irresponsabilmente dal capo del Pentagono coinvolge tutta la NATO, anche il governo italiano e non è che la Russia se ne starebbe ferma e subirebbe l’attacco. Attenzione NATO.
Questi sono gli “alleati” che ci portiamo dietro.
Queste sono le clamorose aporie del governo Meloni. Certo, ormai, dopo la fine della guerra, stiamo dentro la NATO, in un “Occidente” a trazione anglosassone, purtroppo, ma, almeno, il nostro governo, la cui fisionomia dovrebbe essere sensibile alla sovranità, cercasse di trovare un equo contemperamento tra la fedeltà all’Alleanza e un rapporto non conflittuale con la Rssia e, aggiungo, coi paesi arabi e in particolare con gli infelici palestinesi, gli eredi dei Filistei.

Giuliano Mignini

 

 

 

 

 

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