Giornale multimediale Agenzia Stampa Italia Notizie, Lunedì 14 Aprile 2025 - ore 03:15:03
Trump e i dazi: la nuova era del protezionismo globale?

(ASI) Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha lanciato una nuova offensiva commerciale che potrebbe rappresentare il punto di non ritorno per l’ordine economico globale post-bellico.

Con la recente minaccia di un ulteriore dazio del 50% sulle importazioni cinesi – in aggiunta ai precedenti 54% già imposti – Trump non solo rafforza la sua linea protezionista, ma spinge il mondo verso un potenziale conflitto economico su larga scala.

L’attuale struttura tariffaria voluta da Trump si configura come una vera e propria muraglia fiscale. Dal 5 aprile, tutti i partner commerciali degli Stati Uniti sono soggetti a un dazio minimo del 10%.

Tuttavia, per alcuni paesi considerati "offensori seriali", i tassi salgono vertiginosamente: 49% sui prodotti cambogiani, 46% su quelli vietnamiti, 20% su quelli dell’Unione Europea e, in particolare, un 54% totale sulla Cina (20% introdotto a marzo + 34% recenti). L’ulteriore 50% minacciato porterebbe il peso fiscale sui beni cinesi al 104% complessivo.

Questo significa che un’azienda americana che importa un prodotto da 100 dollari dalla Cina ne pagherebbe 204. Un fardello insostenibile, soprattutto per i settori industriali che dipendono da componenti esteri.

Secondo la narrativa trumpiana, i dazi sono una cura amara ma necessaria. “È ora di America First”, ha dichiarato Trump, sottolineando la necessità di correggere squilibri commerciali cronici. Il presidente punta a ridurre il deficit commerciale e rilanciare la manifattura interna, frenando quella che definisce una "pillaging" da parte di paesi stranieri.

Ma le motivazioni vanno oltre il bilancio commerciale: Trump collega i dazi anche alla lotta contro il traffico di droga (in particolare il fentanyl dalla Cina), alla regolazione dell'immigrazione e alla riaffermazione del primato economico statunitense.

La risposta di Pechino non si è fatta attendere: dazi del 34% contro prodotti americani e una dura nota diplomatica. “Ritirate le misure entro l’8 aprile o scatteranno contromisure aggiuntive”, ha affermato il portavoce del Ministero del Commercio cinese. Trump ha reagito minacciando l’imposizione del nuovo 50%, e la cessazione immediata di ogni trattativa con la Cina.

Anche altri alleati storici degli USA stanno reagendo con preoccupazione. Il premier giapponese Shigeru Ishiba ha definito la situazione “una crisi nazionale”, mentre la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha proposto un accordo di "zero-for-zero tariffs", ma ha comunque avvertito che l’UE è pronta a difendersi. Israele, invece, ha annunciato l’azzeramento dei propri dazi, ma Trump ha risposto con ambiguità, citando gli aiuti economici statunitensi al Paese.

L’Italia, rappresentata dalla premier Giorgia Meloni – alleata di ferro di Trump – ha definito la misura “sbagliata”, pur ribadendo la volontà di negoziare per evitare una guerra commerciale.

Le conseguenze non si sono fatte attendere sui mercati: la Borsa di Hong Kong ha registrato un -13% in una sola giornata, la peggiore dal 1997; il FTSE 100, il DAX tedesco, il Nikkei giapponese e l’S&P 500 statunitense hanno subito perdite significative.

Gli analisti avvertono che la guerra dei dazi potrebbe spingere l'economia globale verso una recessione tecnica. Goldman Sachs ha rivisto al ribasso le previsioni di crescita, segnalando un rischio del 70% di recessione entro la fine del 2025. L’ex capo economista del FMI, Ken Rogoff, ha stimato al 50% la probabilità di una contrazione dell’economia USA.

Anche la Federal Reserve, nella voce di Jerome Powell, ha espresso preoccupazione per l’effetto inflattivo delle tariffe e per l’incertezza che esse stanno creando nel sistema economico globale. Paradossalmente, mentre Trump vuole incentivare la produzione nazionale, chiede anche alla Fed di abbassare i tassi d’interesse per stimolare l’economia: un controsenso macroeconomico difficile da sostenere nel lungo periodo.

 

L’Italia esporta ogni anno verso gli Stati Uniti beni per oltre 50 miliardi di euro, tra cui prodotti automobilistici, macchinari industriali, moda e agroalimentare. Le tariffe, in particolare quelle su componenti meccaniche e auto, potrebbero infliggere un duro colpo a regioni come Lombardia, Emilia-Romagna e Piemonte, fulcri della manifattura nazionale.

Colossi come Fiat e Ferrari potrebbero vedere i costi esplodere, mentre aziende più piccole potrebbero semplicemente abbandonare il mercato statunitense. Il blocco temporaneo delle esportazioni annunciato da Jaguar Land Rover è un segnale chiaro: l’incertezza normativa può diventare una barriera commerciale più grande dei dazi stessi.

Il nuovo scenario creato dalla stretta protezionista americana rischia di avere effetti a catena sull’intero sistema economico italiano. Con un tessuto produttivo fortemente orientato all’export e basato su piccole e medie imprese, l’Italia potrebbe subire un colpo pesante non solo nei bilanci aziendali, ma anche in termini di fiducia degli investitori esteri e posizionamento globale.

Secondo il Centro Studi di Confindustria, l’aumento dei dazi potrebbe generare una contrazione del PIL tra lo 0,2% e lo 0,4% su base annua, se non verranno attuate contromisure adeguate in tempi brevi.

Molte delle filiere agroalimentari colpite dai dazi hanno una forte radicazione territoriale. Pensiamo, per esempio, alle regioni del Nord Italia, dove si concentra la produzione di formaggi DOP, prosciutti e vini esportati negli Stati Uniti.

Qui l’effetto domino può essere devastante: un calo delle esportazioni può comportare la chiusura di microimprese, la perdita di manodopera specializzata e la desertificazione economica di intere aree rurali. Le organizzazioni di categoria chiedono quindi interventi mirati non solo a livello nazionale, ma anche regionale, per tutelare i distretti agroindustriali più fragili.

Di fronte alla minaccia strutturale rappresentata dai dazi, alcune grandi aziende italiane stanno valutando opzioni radicali, come la delocalizzazione parziale della produzione direttamente negli Stati Uniti.

Lavazza, Illy e Granarolo non hanno nascosto l’interesse verso questa strategia, che permetterebbe di aggirare le barriere tariffarie, ma solleva interrogativi sul futuro dell’“Italianità” del prodotto e sulle conseguenze per la produzione nazionale. Al contempo, alcune imprese più piccole potrebbero invece puntare sul reshoring, concentrandosi su mercati europei o emergenti dove il made in Italy mantiene appeal e condizioni più favorevoli.

L’introduzione dei dazi da parte di Trump è anche un test cruciale per la diplomazia italiana e per la capacità dell’Unione Europea di rispondere con una voce unitaria. Le imprese chiedono all’Italia di fare pressione a Bruxelles affinché si attivino misure compensative, da fondi di sostegno diretti a politiche promozionali nei mercati alternativi.

La Commissione europea ha lasciato intendere che verrà avviato un nuovo round negoziale con Washington, ma la strada appare lunga e incerta. L’Italia, in questo contesto, dovrà saper difendere con forza la propria leadership nel food & beverage globale.

Tommaso Maiorca -  Agenzia Stampa Italia

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