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Emma Bonino, una donna soldato al Quirinale?
(ASI) Avanza la candidatura di Emma Bonino alla presidenza della Repubblica. Secondo voci indiscrete e pronostici, forse azzardati, la storica pasionaria radicale starebbe sopravanzando personaggi di peso quali Romano Prodi, Massimo D’Alema e Giuliano Amato, dati per sicuri competitori fino a qualche giorno fa. L’idea di una donna al Quirinale costituirebbe senz’altro una novità epocale nel panorama politico del nostro Paese e, analogamente alla trovata “pubblicitaria” di Barack Obama nel 2008, anche in questo caso tutti sarebbero trascinati dall’ondata emozionale del classico evento di rottura. Purtroppo però, così come per Obama, anche nel caso della leader radicale si tratterebbe di una rottura esclusivamente formale, di una “svolta” nel quadro di quel sensazionalismo che sta pericolosamente oscurando la sostanza della politica, cioè l’architrave classico del modo di intendere e costruire la società, un tempo basato sui tre pilastri delle effettive competenze, delle capacità amministrative e della visione strategica.

Il significato teorico del premio Nobel per la pace assegnato ad Obama ha ben poco a che fare con la reale politica estera della sua amministrazione, contrassegnata dal deterioramento dei rapporti con il Pakistan, dove i droni del Pentagono utilizzati nel Waziristan e nelle Aree Tribali continuano a mietere vittime civili ogni mese, e dal disastro della “primavera araba”, dove l’inserimento occidentale ha creato le condizioni affinché al-Qaeda potesse ristrutturarsi proprio a partire dall’Africa (Mali, Libia, Egitto, Tunisia e Somalia), malgrado la (presunta) cattura di Bin Laden.

Anche in questo caso, parliamo di una donna che vicino ad un Nobel per la “pace” di questo tipo ci è andata moltissime volte. Dagli anni Settanta in poi, il nome di Emma Bonino è stato associato alle storiche battaglie radicali in favore della legalizzazione del divorzio, dell’aborto e del consumo di alcune droghe. Erano anni difficili, segnati dalla Contestazione e dalla cosiddetta strategia della tensione, anni in cui il Partito Radicale si inserì come una novità indipendente tra i tanti estremismi ideologici “rossi” e “neri”. I radicali, nati come scissione a “sinistra” del Partito Liberale Italiano nel 1955, condussero per lungo tempo una gigantesca campagna di propaganda contro il Vaticano e l’avversione condivisa per la Democrazia Cristiana, allora dominante, li affiancò spesso alla sinistra socialista e comunista.

Tuttavia, in materia economica il Partito Radicale era ed è fortemente orientato al liberismo e la sua critica al sistema “partitocratico” (i radicali furono forse i primi ad introdurre il termine, poi abusato) velava – e nemmeno troppo – l’intenzione di liberare il sistema industriale e produttivo del nostro Paese dal controllo della politica. Questa retorica avrebbe trovato terreno fertile nell’elettorato chiamato a votare i referendum del 1993, piazzati come una giostra per i bambini proprio pochi mesi dopo l’avvio dell’inchiesta condotta dal celebre pool di Mani Pulite. L’indignazione popolare per la corruzione nel mondo politico fu cavalcata da numerosi partiti e, ovviamente, anzitutto da quelli che nella Prima Repubblica erano rimasti fuori dal circuito principale o da quelli appena affacciatisi sullo scenario politico italiano. In breve tempo l’effetto mediatico di un tintinnio di manette che stava di fatto sostituendo a suon di colpi giudiziari un’intera classe dirigente palesemente percepita come inadatta a gestire il Paese nel nuovo assetto internazionale scaturito dal crollo del Muro di Berlino, costituì un mezzo capace di condizionare in maniera pesantissima l’opinione pubblica che votò in massa tutto il pacchetto referendario proposto dai radicali e da altri partiti politici minori, abrogando a larga maggioranza non soltanto le leggi che regolavano il finanziamento pubblico ai partiti ma anche e soprattutto il Ministero per le Partecipazioni Statali (nel sistema economico-industriale), le norme che regolavano le nomine ai vertici delle banche pubbliche, il sistema elettorale proporzionale (in favore di nuovi principi maggioritari di derivazione anglo-americana) e le norme che disciplinavano i reati e le pene in materia di sostanze stupefacenti. In definitiva quella tornata referendaria realizzò, apparentemente “dal basso”, una prima determinante fase di liberalizzazione dell’Italia sotto tutti i punti di vista: economico, politico, sociale ed etico.

In campo internazionale, inoltre, i radicali erano e sono nettamente schierati su posizioni atlantiste, sioniste ed europeiste, tanto che furono i primi ad introdurre in Italia la retorica (oggi abusata) dei cosiddetti “diritti umani”, applicandone lo schema agli interessi geopolitici della NATO. Da sempre schierati per il riconoscimento della legittimità ad esistere e a difendersi dello Stato di Israele, i radicali ne propongono anche l’ingresso all’interno della NATO e dell’Unione Europea: strutture politiche, economiche e militari che reputano da sempre fondamentali per l’affermazione internazionale (o meglio, “transnazionale”) delle istanze “democratiche”, “libertarie” e “liberali” nella società. Già nel decennio compreso tra la fine degli anni Settanta e la fine degli Ottanta, infatti, Emma Bonino e Marco Pannella organizzarono numerose manifestazioni di protesta contro l’Unione Sovietica, anche in concerto con quanto stabilito nel quadro della Conferenza di Helsinki del 1975. Pur di portare avanti il proprio progetto (geo)politico, i radicali si mossero immediatamente nel supporto all’organizzazione cattolica polacca Solidarnosc, guidata dal premio nobel per la “pace” (un altro) Lech Walesa, simbolo, assieme a Karol Wojtyla, dell’intromissione politica occidentale nei Paesi socialisti dell’Europa dell’Est.

La battaglia per il riconoscimento dei “diritti umani” nei Paesi del Patto di Varsavia diventò così il cavallo di battaglia dei radicali lungo tutta la decade “reaganiana”. Nel 1982 presero nettamente le distanze dai comunisti italiani (per altro il PCI si era già allontanato da Mosca nella prima fase della segreteria Berlinguer, accettando l’“ombrello protettivo” della NATO) e rilasciarono un comunicato senza tanti giri di parole: “Noi radicali siamo anti-sovietici. Denunciamo cioè il pericolo crescente della politica espansionista e militarista dell'URSS. La nostra opposizione a questa politica è chiara e costante: abbiamo svolto nella primavera '82 manifestazioni nonviolente contro lo sterminio per fame e per il disarmo nelle capitali dell'Est europeo (Mosca, Praga, Berlino Est, Budapest, Sofia, Bucarest), dove i militanti nonviolenti sono stati fermati, arrestati ed espulsi suscitando una notevole eco sui mezzi di informazione internazionali”. Nel 1986 organizzarono una marcia simultanea tra Roma e Gerusalemme per chiedere la libertà di espatrio in Israele per gli ebrei russi e la liberazione del professor Josef Begun, condannato a dodici anni di reclusione in Siberia dalle autorità nazionali per aver insegnato reiteratamente l’ebraico in un istituto sovietico. Nel 1987 contestarono la visita in Italia del generale polacco Jaruzelski, ricevuto dall’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, ma considerato dai radicali un “criminale di guerra”. Tra il 1990 e il 1993 avviarono mobilitazioni di sostegno ai loro compagni di partito in Russia per chiedere la legalizzazione delle sostanze stupefacenti e l’abolizione del proibizionismo sovietico. Nel 1991 manifestarono assieme ad alcuni azeri residenti in Italia davanti all’Ambasciata dell’URSS a Roma per condannare il tentativo di golpe contro Mikhail Gorbachev. Per tutto il 1992 portano avanti una proposta internazionale per richiedere presso l’ONU la realizzazione di un “piano Marshall” nelle repubbliche ex sovietiche.

Caduta l’URSS, però, i radicali non abbandonarono la Russia e cominciarono a sostenere il separatismo ceceno, già coinvolto nella rete di al-Qaeda attraverso la connessione tra i terroristi Chemil Basayev e Bin Laden, impegnati nel folle progetto di costituzione di un Emirato del Caucaso, ispirato alla setta estremista eterodossa islamica del wahhabismo. Simile schema venne seguito nei Balcani, dove Emma Bonino fu in prima fila nel fronte interventista ai danni della Serbia, amaro preludio all’agressione militare della NATO contro la nazione cristiano-ortodossa, “rea” – secondo il j’accuse internazionale – di aver tentato di bloccare il pericoloso revanscismo ustascia-cattolico croato e di neutralizzare gli squadroni della morte di al-Qaeda, catapultati a Sarajevo e a Pristina tra il 1993 e il 1998.

Se, dunque, la battaglia contro il “panrussismo” sopravvissuto nel mondo postcomunista continua sotto nuove forme, la lotta contro il “totalitarismo comunista” dei radicali si sposta in Asia Orientale e soprattutto in Cina, dove Emma Bonino e Marco Pannella si segnalano per il loro attivismo in favore della rete sovversiva Free Tibet, costruita negli Stati Uniti attorno alla figura del Dalai Lama, e della rete integralista islamista uigura nella Regione Autonoma dello Xinjiang. Nemmeno il Vietnam viene risparmiato dalle invettive radicali, che individuano nella comunità prevalentemente cattolica delle montagne (Montagnard Degar) un’ennesima minoranza “oppressa” da portare in trionfo presso l’opinione pubblica italiana. Poco importa che la Bonino e Pannella in patria siano passati alla storia come i più acerrimi nemici della Chiesa: come verrebbe da dire, una rivoluzione colorata val bene una messa.

Anche l’approccio all’Islam è “diversificato” secondo criteri che ricordano molto da vicino la politica estera americana. Se nel 2010 Emma Bonino continuava ad attirare l’attenzione del mondo sul caso Sakineh e sulla presunta “tirannia misogina” nell’avanzato Iran sciita, nel 2011 si diceva entusiasta per il riconoscimento di elettorato attivo e passivo ottenuto dalle donne nel lugubre regno wahhabita dell’Arabia Saudita, uno dei Paesi più oscurantisti e arretrati del mondo ma anche uno dei migliori “petroalleati” di Washington.

Considerando gli impegni internazionali sin qui assunti da Emma Bonino presso l’ONU, in qualità di alto rappresentante, il suo ruolo istituzionale interno, in qualità di ex deputato ed ex vicepresidente del Senato, e l’immagine che potrebbe dare dell’Italia nel mondo attraverso le sue attività politiche passate e presenti qualora salisse al Quirinale, è logico prevedere che i rapporti, già complessi, del nostro Paese con Russia, Cina, Vietnam o Iran e rispettivi alleati rischierebbero un serio deterioramento con tutto ciò che ne conseguirebbe dal punto di vista economico in una fase di pesante recessione come l’attuale.

Per legge e per opportunità istituzionale, i giudizi sull’operato di Napolitano vanno senz’altro posticipati in attesa che il suo mandato si completi definitivamente, ma possiamo già dire che l’eventuale elezione della Bonino al ruolo di capo di Stato segnerebbe una preoccupante “escalation” nell’indirizzo generale del nostro Paese.

Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

 

 

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