(ASI)Roma.
Lettere in Redazione - Fino a poco tempo fa i titoli di Stato erano la forma d’investimento in cui confluivano i risparmi delle famiglie. Secondo la Banca d’Italia, nel 1995 il 90% del debito pubblico era nelle mani di investitori italiani. La storia economica ci insegna che, dall’Illuminismo in poi, questo rapporto ha rappresentato il più forte legame tra gli Stati e i loro popoli nelle nazioni democratiche.
Ciò perché i cittadini, essendo creditori dello Stato, erano cointeressati alla gestione delle finanze pubbliche. E lo Stato, dal canto suo, era in un certo senso “obbligato” a fare buon uso dei fondi introitati attraverso il debito. Gli obiettivi di governanti e governati finivano così per coincidere. In Italia, dove più di ogni altro Paese in Europa tali interessi sono tra loro distanti, questo meccanismo ha portato ad alcune distorsioni. Per coprire il deficit senza aumentare il debito si sarebbe potuto aumentare le tasse. Ma così i governi avrebbero perso voti. Quindi, meglio indebitare lo Stato, lasciando i soldi in tasca agli italiani e illudendoli che avrebbero potuto riempirsele investendo in Bot e Btp. Ma così facendo le tasse non potevano che aumentare comunque, poiché aumentando il debito, aumentano gli interessi da pagare. Con l’aggravante di appesantire il bilancio statale con un onere per gli interessi che entro l’anno supererà gli 82 miliardi di euro. Nel frattempo ci hanno guadagnato i ricchi e ci hanno perso i poveri: i titoli di Stato sono stati accumulati da banche, assicurazioni o nababbi per avere una rendita sicura con interessi alti. Interessi, ovviamente, a carico dei contribuenti. Cioè dei lavoratori dipendenti, quelli che le tasse le pagano sempre. E che possedevano solo il 10% del debito totale. La rendita sicura è stata garantita anche da una tassazione ridicola, fissata in un’aliquota unica del 12,5% dalla riforma Visco sul finire degli anni Novanta. Con buona pace del criterio di progressività sancito dalla Costituzione. In pratica gli italiani più ricchi hanno pagato meno tasse, in compenso facendo raddoppiare il debito. Un cortocircuito finanziario che ha contribuito a rendere i ricchi ancora più ricchi e i poveri più poveri. Non è un caso se l’Ocse rivela che negli ultimi 15 anni in Italia la differenza tra ricchi e poveri è aumentata del triplo rispetto alla media europea. Alla faccia dei buoni propositi sulla redistribuzione della ricchezza.
Oggi la situazione è mutata. Complice la sopraggiunta “povertà” delle famiglie italiane, queste ultime hanno drasticamente ridotto la loro percentuale di risparmio in titoli di Stato, mentre è enormemente cresciuta la quota di debito in mano a soggetti stranieri. Esponendo il Paese al rischio di gravissimi problemi. Il Bollettino statistico della Banca d’Italia sottolinea che dal 1995 ad oggi la percentuale del nostro debito pubblico detenuto da soggetti non residenti è progressivamente cresciuta dal 10% all’attuale 56%. E il debito attuale ammonta a quasi 1.900 miliardi di euro, oltre il 120% del PIL, che ci porta ad essere l’ottavo Paese più indebitato al mondo. Questo significa che, ragionando per assurdo, anche se noi italiani per amor di patria regalassimo allo Stato tutto il credito concesso, il debito resterebbe almeno per la metà dell’attuale valore. Per assurdo, perché la maggior parte di quei denari sono costituiti da fondi pensione o assicurativi. E dunque, intoccabili.
A chi appartiene oggi il debito pubblico italiano? La risposta l’ha data il New York Times, in seguito alla crisi greca dello scorso anno. La Francia detiene 511 miliardi del nostro debito, pari al 30% del debito stesso e al 20% del PIL d’oltralpe. Il quotidiano della Grande Mela voleva evidenziare che, se il nostro Paese piombasse in una crisi di liquidità, ne soffrirebbe tutta l’area euro, al punto da metterne a rischio la stessa esistenza. Ma c’è un altro aspetto da considerare. Che ci riguarda molto da vicino. Un Paese che sottoscrive il debito pubblico di un altro, oltre ad investire la propria liquidità e garantirsi un flusso di cassa pluriennale, ne ricava un altro effetto positivo. Calcolabile nel lungo periodo. Se gli acquisti del Paese creditore sono fatti durante un periodo di crisi (come sappiamo ne è in corso una, e ci siamo dentro fino al collo), il potere negoziale esercitabile è notevole. Il creditore può ottenere in contropartita delle clausole nei trattati commerciali. La Cina, ad esempio, sottoscrivendo il debito greco ha chiesto l’uso del porto del Pireo e che le future navi in dotazione alla marina di Atene siano comperate in Cina. Il debito ha l’effetto di incrementare le esportazioni dal Paese creditore al debitore, favorendo la competitività delle proprie industrie. E orientando le scelte commerciali (e strategiche) del debitore a proprio vantaggio.
Alla luce di queste considerazioni possiamo comprendere perché il governo non fa nulla per impedire che i colossi francesi acquisiscano aziende italiane. Ma sopratutto perché ha tanta premura di tornare al nucleare, acquistando le centrali dalla francese EDF. Ora che il nostro debito non è più “in famiglia”, potrebbero essere proprio le famiglie italiane a pagarne le conseguenze, a cominciare dalle pensioni. E nella peggiore delle ipotesi, con le radiazioni. I 511 miliardi di debito che pesano come un macigno sulle nostre spalle, a parere della maggioranza, sono una ragione sufficiente per svendere il nostro futuro e la nostra sicurezza.