(ASI) Il voto che, domenica, poco più di quattro milioni di persone hanno espresso per le primarie del Pd va letto e interpretato con molta attenzione, cosa che in verità, non ho visto fare nelle tante trasmissioni da parte dei politici e degli opinionisti. Ancora (mentre scrivo) non conosco i dati definitivi anche se è certo che si dovrà fare il ballottaggio tra i più votati: Pierluigi Bersani (intorno al 45 %) e Matteo Renzi.(intorno al 35 %).
La prima cosa, peraltro piuttosto evidente, e che nessuno ha detto, è che se un segretario nazionale di un partito, chiamando al voto gli iscritti e i simpatizzanti, non riesce ad ottenere più del 50 % dei consensi vuol dire che non ha la maggioranza e, quindi, non deve fare il ballottaggio la domenica successiva, si deve dimettere. Esattamente l’opposto di quello che sostiene qualcuno che parla addirittura di vittoria di Bersani.
La seconda cosa che bisogna guardare, non sono solo le percentuali, ma il numero dei votanti e i voti ottenuti. Ho sentito dire che, per esempio, a Catanzaro ha stravinto Bersani perché ha ottenuto il 54,6 % mentre Renzi il 23,4 %, ma nel capoluogo calabrese sono andati a votare poco più di mille persone, mentre a Perugia, dove ha vinto Renzi, sono stati molto più di diecimila. Dati eterogenei che vanno guardati con un minimo di obiettività.
La terza cosa, questa sì straordinaria e sorprendente, è il voto eccezionale dato a Renzi nelle Regioni cosiddette rosse, dove cioè dagli anni Settanta, ininterrottamente, hanno governato, sia pure con nomi ed alleati diversi, i bolscevichi. Questo significa il rifiuto, il rigetto, di un potere ingombrante, diventato insopportabile anche per gli stessi ex comunisti, che hanno visto in Renzi il nuovo Mikhail Gorbaciov che vuole portate in un partito ancora comunista, la perestrojka e la glasnost.
Fortunato Vinci – Agenzia Stampa Italia
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