(ASI) Urla a bassa voce, con le sue voci dal buio, è un libro importante e necessario. Ci costringe ad aprire gli occhi di fronte a una realtà che non ci piace. Ci obbliga a conoscere ciò che non vorremmo sapere, realtà che vorremmo tenere distanti dalla nostra vita e che – di fatto – ci riguardano.
Urla a bassa voce è anche un libro di non facile lettura perché documenta e informa anche su che cosa significa – per il nostro ordinamento – “ergastolo ostativo”. Il termine, di per sé duro e respingente, significa che qualsiasi riduzione di pena decisa dalla legge per chi è in carcere, è negata a chi vive la condizione dell’ergastolo. Per chi è condannato all’ergastolo – detto in altri termini – non ci sono benefici di legge possibili sulla pena. Vale a dire che l’ergastolo è totale, effettivo e senza termine.
Non è “una” facile lettura perché in contesti di reati, di delitti, di difesa sociale e di torti subiti…, non è possibile attivare il pensiero semplice. Le ragioni (sacrosante e legittime) di chi dal delitto è stato ferito nella vita e negli affetti non possono essere negate, così come non può essere dimenticato che ci è chiesto di muoverci nella direzione di una giustizia che sappia riparare, essendo in realtà impossibilita a risarcire davvero, poiché alla perdita di un bene supremo qual è la vita non c’è rimedio possibile.
Impedire alla giustizia di diventare vendetta è la vera sfida a cui siamo chiamati. Impedire che la giustizia “chiuda” chi ha sbagliato nel suo errore (e gli neghi le possibilità del cambiamento) è l’altra faccia della stessa medaglia.
Per questi motivi la Corte Costituzionale aveva sentenziato che la pena dell’ergastolo era da considerarsi legittima solo in quanto effettivamente non perpetua, potendo il condannato fruire di benefici e misure che la trasformavano in pena a termine. In questo caso la Corte affermava che si poteva essere condannati al “fine pena mai”, purché quel “mai” non fosse davvero tale. Una decisione salomonica, tesa a scongiurare l’abolizione per via legislativa di questa pena che, a differenza dell’Italia, molti Paesi hanno eliminato dal proprio codice penale, ritenendola incivile e inumana.
Nel clima attuale può sembrare incredibile, ma, per la verità, il Parlamento provò egualmente ad abolire l’ergastolo: nell’aprile 1998 il Senato approvò un disegno di legge in tal senso con 107 voti a favore, 51 contrari e otto astenuti, ma la riforma si arenò poi alla Camera. Si trattò di un tentativo controcorrente e di un atto di coraggio non frequente da parte dei partiti politici; eppure erano passati solo pochi anni dalle terribili stragi di mafia di Capaci e di Palermo.
Oggi la situazione è decisamente peggiorata da molti punti di vista. Vari e successivi interventi legislativi hanno irrigidito il sistema delle pene; la situazione penitenziaria è costantemente al limite del tracollo, con un sovraffollamento record e con condizioni interne insostenibili, sia per quanto riguarda la vita dei reclusi sia per il lavoro degli operatori e degli agenti. Soprattutto sono cambiati il clima sociale e la cultura generale, assai poco inclini a considerare la necessità di riforme e di aperture.
Anche per queste ragioni il libro risulta opportuno: un piccolo contributo a provare a cambiare una cultura della pena che, come ebbe a dire nell’anno del Giubileo papa Giovanni Paolo II, somiglia troppo spesso alla ritorsione sociale.
Urla a bassa voce costringe a delle domande scomode, che consuetamente si cercano di evitare poiché non lasciano tranquilli e poiché le risposte non sono a portata di mano, comportando approfondimento e un coinvolgimento anche emotivo.
Provo a porne qualcuna.
La prima: se lo scopo prevalente della pena detentiva è la rieducazione come può farlo quella perpetua?
La seconda: questo “fine pena mai” aggravato (come a dire: anche il peggio può essere peggiorato in una rincorsa senza fine verso l’annichilimento della speranza), questa «pena di morte viva», come la definisce la curatrice del volume, ha fondamento e legittimità costituzionale?
Tra i tanti altri possibili, vi è poi un interrogativo ulteriore, forse il più scomodo di tutti: possiamo rimanere indifferenti e inerti di fronte a questi uomini sepolti nel buio, dopo avere qui letto le loro storie, percepito le loro sofferenze e osservato il loro cambiamento?
Le pagine che seguono possono e debbono aiutare a trovare risposte, ma non servirebbe leggerle se non si è disponibili a esserne interpellati e scossi, se non si è capaci di abbandonare facili giudizi e stereotipi correnti, perché mai come in questo caso puntare il dito equivale a rinunciare preventivamente all’ascolto.
Questo libro curato dalla giornalista Francesca de Carolis può essere letto in tanti modi diversi: come spaccato di vita e di problematiche carcerarie, come trattato critico di criminologia, come rassegna di delitti e di pene, come stimolo all’impegno civile. Per me è, anzitutto, una raccolta di testimonianze che “gridano” la loro fatica e la loro sofferenza .
Le prime pagine, con le note autobiografiche degli autori, dicono già gran parte di quel che c’è da sapere. Vite bruciate dal carcere e nel carcere. E prima dal e nel delitto. O almeno così si è portati, quasi istintivamente, a ritenere. Perché uno dei tanti meriti di questo libro è di ricordarci che di fronte a un uomo incarcerato, tanto più se condannato all’ergastolo, occorre sempre aprirsi al dubbio, oltre che all’ascolto: «E se fosse innocente?». Non per sfiducia nell’operato dei giudici, ma per la consapevolezza che l’errore è umano. E quando quell’errore può portare a tanta sofferenza non riuscire a riparare all’errore è, obiettivamente, disumano.
Il carcere, e questo libro lo dimostra ancora una volta e con più forza, però può anche essere recupero dell’umano. E con esso, grazie a esso, del rispetto per sé e per l’altro e per le regole che consentono alla relazione tra sé e l’altro di essere improntata alle necessità comuni, dunque alla costruzione e alla manutenzione della comunità.
“Bene comune”, un concetto oggi giustamente diffuso, è anche questo: senso della regola e della sua osservanza da parte di tutti. Tutti, naturalmente, vuol dire anche e forse prima chi le regole è tenuto a definirle (il legislatore e il potere politico) e ad amministrarle (l’ordine giudiziario, le istituzioni in generale e, in questo particolare, quelle preposte all’esecuzione della pena).
Occorre infatti dire ad alta voce – non lo si fa abbastanza, anzi, spesso non lo si fa per nulla – che il carcere assume paradossalmente tratti di illegalità. Non è legale il sovraffollamento, non è legale la mancata applicazione del Regolamento penitenziario, varato nel 2000 e rimasto per lo più lettera morta. Non sono legali la mancanza di cure, l’insufficienza dell’assistenza o la lunghezza dei processi. Le Corti europee hanno censurato l’Italia numerose volte per queste e altre croniche mancanze. Eppure, nulla sembra cambiare, nonostante l’impegno degli operatori.
Si tratta di interrogativi le cui risposte, però, non sono scontate. Ma da qui occorre cominciare: dal coraggio civile di porsi e porre domande. Dal non dare per scontato che il carcere e la pena – e tanto più quelli senza fine e senza speranza – siano sempre la risposta giusta e necessaria. Dal provare almeno a immaginare alternative, e poi provare a liberarsi dalla necessità del carcere, come invitava a fare un movimento di illuminati riformatori (Mario Tommasini e Franco Rotelli tra i primi) negli anni Ottanta del secolo scorso. E come, in tempi più recenti, ci ha invitato a fare il cardinal Carlo Maria Martini, secondo il quale non ci si può limitare a pensare a “pene alternative” (peraltro, di questi tempi, concesse con il contagocce) ma è necessario immaginare “alternative alle pene”.
Il carcere, insomma, è un prodotto dell’uomo e in quanto tale ha avuto un inizio ma può dunque anche avere una fine, per lasciare il posto a qualcosa di meno distruttivo, che sappia difendere la collettività ma senza annichilire chi da essa si è chiamato fuori attraverso il delitto. Al quale nella comunità deve però essere concesso di rientrare, avendo compreso i propri errori e avendone pagato le conseguenze; le quali, tuttavia, devono essere tali da lasciare sempre aperta la speranza.
Giudicare insensato il carcere senza fine non è, del resto, asserzione ideologica o radicalismo astratto, ma semplice constatazione. Tenere una persona imprigionata significa, letteralmente, tenerla in cattività. Non c’è positività, non c’è il buono possibile nell’uomo in catene; c’è la sua mortificazione e semmai una spinta a essere peggiore.
Quell’alberello nel cortile della prigione, tagliato per ragioni di sicurezza, cui accenna in queste pagine uno dei condannati all’ergastolo, ci racconta, più di tanti saggi o ricerche, come e perché il carcere non è un rimedio ma un male ulteriore, un danno che si aggiunge al danno, un dolore che non risarcisce altri dolori. Il cardinal Martini, richiamando le Sacre scritture, è stato categorico: «Il cristiano non potrà mai giustificare il carcere, se non come momento di arresto di una grande violenza». Naturalmente, talvolta il carcere appare e diviene necessario. Ma entro limiti precisi. Scrive ancora Martini: «La carcerazione deve essere un intervento funzionale e di emergenza, quale estremo rimedio temporaneo ma necessario per arginare una violenza gratuita e ingiusta» (Sulla giustizia, Mondadori 1999).
Rimedio estremo e temporaneo. Vale a dire che il carcere deve essere considerato l “extrema ratio”, l’ultima possibilità, non la prima, non la scorciatoia. E che la pena deve essere a termine, non perpetua. Invece, alla fine del 2011 il totale dei reclusi che scontavano l’ergastolo ammontava a 1.528. Oltre mille e cinquecento persone che trovano indicato nel proprio fascicolo l’anno 9999 come fine della propria pena. Una pena infinita non può essere considerata vera giustizia.
Da questa considerazione si può e si deve ripartire per una riflessione equilibrata a livello culturale, sociale e politico che tenga in adeguato conto le parti lese, le vittime dei reati, ma sapendo anche che una riforma della pena perpetua ostativa è necessaria.
Non è materia che riguarda solo i giuristi e i tecnici o i diretti interessati.
Urla a bassa voce ci ricorda che siamo tutti chiamati in causa, nella società e davanti alle nostre coscienze. Come scrive Maria dopo la morte di Aziz, un giovane suicida nel penitenziario di Spoleto: «Ogni uomo che si toglie la vita in carcere lo fa anche per causa mia, per un qualcosa che io non ho fatto, per un’attenzione a una sofferenza che non ho voluto o saputo vedere».
d. Luigi Ciotti