Per la Cina un 2025 pieno di novità e cambiamenti con un ruolo globale in forte ascesa

1765281292563 780(ASI) Si sta per concludere un anno esplosivo, pieno di grandi mutamenti e notevoli trasformazioni dell’ordine mondiale.  Pechino, capofila del Sud Globale, cercherà così di inserirsi per affermare con maggior forza le sue istanze, senza tuttavia rinunciare alla promozione di un approccio condiviso, centrato sul diritto internazionale e sugli organismi multilaterali preposti. A questo proposito, Andrea Fais, collaboratore di Agenzia Stampa Italia, è intervenuto sulle “colonne” di Radio Cina Internazionale (CGTN) per la rubrica “In altre parole”. Proponiamo qui di seguito la versione integrale dell’articolo.

Quello che si sta per concludere è stato un anno intenso. Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca ha cambiato molte cose: la sua aggressiva politica dei dazi ha sconvolto il quadro delle relazioni internazionali, rimodulando alleanze e rivalità, ridefinendo i rapporti di forza tra nazioni ed inaugurando sostanzialmente una nuova era caratterizzata da ripensamenti strategici e riposizionamenti geopolitici alla luce delle profonde trasformazioni dell’ordine globale. Con la linea protezionista e semi-isolazionista del loro presidente e del suo staff, gli Stati Uniti non intendono certo ritirarsi completamente dagli scenari esteri, ma perseguono comunque un ripiegamento strategico nel tentativo di preservare un ruolo di leadership globale e ridurre il debito federale, concentrandosi sul controllo dell’Emisfero Occidentale, sulle risorse strategiche e sul perseguimento di un sostanziale equilibrio tra potenze. Restano dubbi e contraddizioni, ma se tutto ciò verrà effettivamente messo in pratica, questa linea sancirà il tramonto del vecchio Washington Consensus, a vantaggio degli attori emergenti che, come la Cina, da anni stanno cercando con pazienza e perseveranza di contribuire ad una riforma della governance globale commisurata al sistema mondiale multipolare che sta sorgendo.


Cina-USA: nuove relazioni alla pari

Dal canto suo, Pechino ha mantenuto una posizione ferma, tenendo testa agli Stati Uniti anche nei momenti più duri del confronto a distanza, come a metà aprile, quando Trump era arrivato a minacciare un dazio massimo del 245% su alcune merci cinesi in ingresso nel suo Paese. In virtù di solidi fondamentali macroeconomici, in particolare sul fronte del commercio estero, con l’export in forte crescita nei primi tre trimestri dell’anno (+7,1%), Pechino non si è piegata alle intimidazioni e alle misure punitive di Washington, di fatto obbligando l’Amministrazione Trump ad una trattativa su basi paritarie. I quattro round negoziali di Ginevra, Londra, Stoccolma e Madrid hanno svolto una decisiva funzione preparatoria per il vertice bilaterale di Busan, che lo scorso 30 ottobre ha messo di fronte i due presidenti a più di sei anni dall’ultimo faccia-a-faccia, avvenuto a margine del G20 di Osaka.

Dopo otto mesi di alta tensione tra le due sponde del Pacifico, il raggiungimento dell’accordo – che ha fissato un anno di tregua nella guerra commerciale con il conseguente annullamento dei dazi aggiuntivi e di altre pesanti misure restrittive – costituisce una vittoria per Pechino. Già ad aprile, dopo le prime rimostranze di alcune big tech statunitensi, la Casa Bianca era stata costretta a fare parziale retromarcia esentando dai dazi diversi prodotti tecnologici, come computer, smartphone, tablet ed altri ancora, in gran parte realizzati proprio in Cina. Al di là dei toni roboanti nelle dichiarazioni ufficiali, Washington nei mesi successivi ha dovuto rivedere ulteriormente le sue pretese e correggere il tiro nel tentativo di ripristinare una linea di interlocuzione.

Sebbene alcuni Paesi occidentali, a partire dagli stessi Stati Uniti, abbiano parzialmente messo in atto strategie di diversificazione per spostare talune attività economiche in mercati alternativi, il posizionamento strategico conseguito negli ultimi quarant’anni dalle aziende cinesi lungo le catene globali del valore e quelle di approvvigionamento in numerosi settori produttivi non è un fattore reversibile. È questo, in sostanza, il dato di fatto emerso in tutta la sua evidenza durante quest’anno. Perciò l’atteggiamento degli Stati Uniti, duro e intransigente persino con gli alleati più stretti, in primis con l’Unione Europea, ha dovuto ammorbidirsi col passare del tempo anche di fronte ad una Cina intransigente che, come ricordato a marzo da Lin Jian, portavoce del Ministero degli Esteri, sarebbe stata pronta a “combattere fino alla fine”.


Cina-UE, aperture e nuove opportunità

A differenza di Pechino, Bruxelles è stata praticamente obbligata a cedere alle principali richieste di Washington. Sebbene non vincolante, l’accordo quadro raggiunto nel luglio scorso a Turnberry, in Scozia, stabilisce condizioni chiaramente squilibrate. Alle merci UE in ingresso negli Stati Uniti è stato infatti applicato un dazio del 15%. L’Europa si è inoltre impegnata ad acquistare GNL, petrolio e prodotti di energia nucleare statunitensi per un valore pari a 750 miliardi di dollari, nonché microchip AI per almeno 40 miliardi di dollari; il Vecchio Continente dovrà infine investire ulteriori 600 miliardi di dollari in settori strategici statunitensi.

I termini dell’intesa mostrano plasticamente due aspetti determinanti che caratterizzano i limiti dell’Unione Europa: da un lato, la strutturale debolezza politica; dall’altro, il forte rapporto di dipendenza strategica dagli Stati Uniti. Pur con grave ritardo rispetto agli auspici del vertice di Saint Malo del 1998, quando Jacques Chirac e Tony Blair, allora leader di Francia e Gran Bretagna, posero le basi concettuali per l’autonomia europea nel settore della difesa, i vertici dei Paesi UE stanno cercando in tutta fretta di incrementare la loro capacità militare, consapevoli che nei prossimi anni l’Europa dovrà imparare “a difendersi da sola”.

L’autonomia strategica, tuttavia, presuppone l’autonomia politica. Se i governi europei intendono davvero perseguire questa strada non possono continuare a ragionare secondo gli stessi schemi della Guerra Fredda. Potrebbe essere inquadrata in tale ottica la recente visita di Stato del presidente francese Emmanuel Macron in Cina, dov’è stato prima ricevuto dal presidente Xi Jinping a Pechino e poi accolto a Chengdu dagli studenti dell’Università del Sichuan. Proprio in quest’ultima occasione, l’inquilino dell’Eliseo ha “sottolineato la necessità non solo di cooperare ma anche di rafforzare la comprensione reciproca, di conoscersi e di impegnarsi nella riflessione collettiva per sviluppare soluzioni pratiche a questioni urgenti come la crisi climatica”.

In ogni caso, nelle relazioni sino-europee restano alcuni importanti nodi da sciogliere, soprattutto per quanto riguarda i dazi UE sulle auto elettriche di produzione cinese e lo stallo dei negoziati per l’Accordo Globale sugli Investimenti (CAI), fermi dal 2021, senza dimenticare l’atteggiamento revisionista sciorinato in più occasioni dall’Alta rappresentante Kaja Kallas: da ultime, le dichiarazioni che lo scorso settembre avevano messo in discussione il contributo oggettivo della Cina alla vittoria sul nazifascismo e sul militarismo nella Seconda Guerra Mondiale.


La Cina e il Sud Globale

Sono proprio la difesa dell’ordine mondiale e delle regole internazionali emersi da quella vittoria, di cui quest’anno si è celebrato l’ottantesimo anniversario, a motivare la lotta di Pechino contro qualsiasi tentativo di riscrivere la storia per finalità politiche. Invaso militarmente a partire dal 1931, il Paese asiatico subì per quattordici anni consecutivi la violenta occupazione giapponese, da cui riuscì a liberarsi soltanto grazie al sacrificio congiunto di comunisti e nazionalisti, alleati nell’ambito del Secondo Fronte Unito. Quella guerra di liberazione nazionale sancì la fine dell’occupazione straniera dopo oltre cento anni di vessazioni e spoliazioni territoriali (secolo delle umiliazioni), ad opera non soltanto di Tokyo ma anche delle principali capitali europee: una sorte che accomunò la Cina alle tante altre nazioni dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina vittime del colonialismo.

In virtù di questo passato, Pechino si pone oggi quale alfiere del Sud Globale facendo leva su piattaforme multilaterali, partenariati strategici, banche multilaterali di sviluppo e accordi di libero scambio con numerose economie emergenti. Il BRICS, con la sua Nuova Banca di Sviluppo (NDB), l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), il Forum Belt and Road per la Cooperazione Internazionale, la Banca Asiatica per gli Investimenti Infrastrutturali (AIIB), il Forum sulla Cooperazione Cina-Africa, il Forum Cina-CELAC, il Fondo per lo Sviluppo Globale e la Cooperazione Sud-Sud (GDSSCF) e l’Area di Libero Scambio Cina-ASEAN (CAFTA), salita di livello lo scorso ottobre con l’implementazione della versione 3.0 dell’accordo, sono soltanto alcuni dei tantissimi meccanismi che vedono il gigante asiatico impegnato nella cooperazione con le nazioni in via di sviluppo a vari livelli e in vari settori: commercio, investimenti, finanza, energia, tecnologia, sicurezza, cultura, turismo ed altro ancora.

In passato Xi Jinping ha sostenuto che “l’ascesa comune del Sud Globale è una caratteristica distintiva della profonda trasformazione in atto nel mondo”. La Dichiarazione di Tianjin, firmata il primo settembre in occasione dell’ultimo summit SCO, ha riaffermato l’adesione dei Paesi membri ai principi del cosiddetto ‘Spirito di Shanghai’: fiducia reciproca, beneficio condiviso, uguaglianza, consultazione, rispetto delle diverse forme di civiltà e perseguimento dello sviluppo comune. Questi valori sono anche alla base dell’Iniziativa di Governance Globale (GGI), lanciata dal presidente cinese in quegli stessi giorni, che va così ad affiancarsi alle altre tre (GDI, GSI, GCI) presentate in precedenza.

 

Andrea Fais - CRI (CGTN) 

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