(ASI) Le elezioni di metà mandato nelle Filippine, tenutesi il 12 maggio, hanno confermato che nel Paese del Sud-est asiatico la democrazia continua a muoversi dentro il recinto delle grandi famiglie politiche, dove le rivalità personali pesano più delle ideologie e il consenso si trasmette di generazione in generazione come un titolo nobiliare. Questa volta la contesa è stata fra i clan Marcos e Duterte, antichi alleati oggi in piena guerra di successione.
Il voto, che ha rinnovato l’intera Camera dei Rappresentanti e metà del Senato, non ha solo ridisegnato gli equilibri parlamentari ma ha messo a nudo la fragilità di un sistema politico dominato dalle logiche dinastiche.
Sullo sfondo, la figura ingombrante di Rodrigo Duterte, l’ex presidente oggi detenuto all’Aia con accuse di crimini contro l’umanità per la sanguinosa “guerra alla droga” condotta fra il 2016 e il 2022, e quella del suo successore, Ferdinand “Bongbong” Marcos Jr., figlio del dittatore che governò il Paese per due decenni di ferro e corruzione.
Il paradosso è che Duterte, pur imprigionato, è riuscito a essere rieletto sindaco di Davao, la roccaforte meridionale della sua famiglia: un segnale inequivocabile della resilienza politica del clan, capace di trasformare perfino un’aula di tribunale internazionale in un palcoscenico elettorale. Da lì, i Duterte hanno rilanciato la sfida ai Marcos, accusando il presidente di aver favorito l’estradizione del patriarca per indebolire i rivali e consolidare il potere centrale.
Ma la vendetta non è solo simbolica. Sara Duterte, vicepresidente e figlia dell’ex presidente, è ora al centro di un procedimento d’impeachment per presunto abuso di fondi pubblici e complotto contro lo stesso Marcos.
L’esito del voto del Senato, rinnovato in parte con queste elezioni, sarà decisivo per la sua sorte politica e per la possibilità — tutt’altro che remota — di candidarsi alla presidenza nel 2028. Se venisse condannata, la figlia dell’ex leader verrebbe esclusa per sempre dalla vita pubblica; se assolta, tornerebbe sulla scena con un capitale politico moltiplicato.
Nonostante l’apparente solidità del potere presidenziale, i risultati non sono stati esaltanti per Marcos Jr. Solo metà dei senatori eletti appartengono alla sua alleanza, mentre una parte consistente degli altri ha preferito schierarsi con i Duterte o mantenere una prudente neutralità.
La sorella del presidente, Imee Marcos, ha scelto di correre con l’appoggio del campo avversario — un gesto di opportunismo politico che racconta quanto la fedeltà familiare, nelle Filippine, sia subordinata al calcolo elettorale.
La frammentazione si riflette anche nei risultati locali, dove le due famiglie continuano a dominare territori opposti del Paese. Gli Ilocos, a nord, restano saldamente in mano ai Marcos; Davao, al sud, rimane la capitale morale dei Duterte. È una geografia del potere che ricalca una spaccatura storica e culturale, ma che ora rischia di bloccare il sistema politico nazionale in una logica di perenne vendetta incrociata.
Eppure, tra le faglie del duopolio dinastico, si intravede una piccola ma significativa crepa. Le elezioni hanno registrato l’inatteso ritorno sulla scena dei liberali, guidati dagli ex senatori Bam Aquino e Kiko Pangilinan, entrambi protagonisti di un sorprendente successo al Senato.
La vittoria del movimento Mamamayang Liberal, legato alla storica famiglia Aquino e alla ex vicepresidente Leni Robredo, ha restituito visibilità a un’area politica data per spenta dopo il trionfo populista del 2022. È un segnale timido ma eloquente: una parte del Paese, soprattutto tra i giovani e la classe media urbana, sembra desiderosa di un’alternativa alla polarizzazione tossica che oppone Marcos e Duterte.
In un contesto regionale in ebollizione, dove gli equilibri tra Washington e Pechino ridefiniscono le strategie di ogni capitale asiatica, il futuro delle Filippine ha implicazioni che vanno ben oltre il teatro domestico. Marcos Jr. ha scelto di riallineare Manila agli Stati Uniti, rafforzando i legami militari e garantendo basi logistiche alla Marina americana nel Mar Cinese Meridionale.
I Duterte, al contrario, restano più vicini alla Cina, sia per convenienza economica sia per un consolidato antiamericanismo che affonda nelle esperienze personali dell’ex presidente Rodrigo. Dietro le quinte, insomma, la contesa tra le due famiglie non riguarda solo il potere interno, ma anche l’orientamento strategico del Paese in un’area sempre più contesa.
La Commissione elettorale (COMELEC) ha salutato le elezioni come un passo avanti in termini di partecipazione e trasparenza, grazie all’introduzione del voto online per gli elettori all’estero e a misure di inclusione per anziani, disabili e popolazioni indigene. Tuttavia, le organizzazioni internazionali come ANFREL hanno segnalato persistenti problemi: voto di scambio, abusi di risorse statali e la perenne influenza dei clan locali.
Una democrazia che funziona, sì, ma che continua a vivere sotto il peso delle famiglie che la interpretano come un patrimonio personale.
Alla fine, queste elezioni di metà mandato non hanno risolto nulla. Hanno solo congelato un conflitto, lasciando il Paese sospeso tra due eredità. Marcos governa ma non domina; i Duterte perdono terreno ma non scompaiono. Intanto, il popolo filippino resta spettatore e arbitro di una partita dove i protagonisti sono sempre gli stessi — e dove il vero cambiamento, ancora una volta, è rimandato alla prossima generazione.
Tommaso Maiorca – Agenzia Stampa Italia



