(ASI) La cerimonia di insediamento di Lai Ching-te, nuovo governatore di Taiwan, andata in scena lunedì scorso a Taipei, ha innescato la dura reazione di Pechino, che tre giorni dopo ha dato il via ad una nuova esercitazione militare di quarantotto ore, esplicitamente annunciata per lanciare un «segnale punitivo» oltre lo Stretto, coinvolgendo esercito, marina, aviazione e forze missilistiche su tutti i lati dell'isola principale e intorno alle più piccole isole di Kinmen, Matsu, Wuqiu e Dongyin.
Le manovre messe in atto dal Comando del Teatro Orientale dell'Esercito Popolare di Liberazione, definite «legittime e necessarie» dal Ministero degli Esteri cinese, hanno confermato, come già avvenuto nell'agosto 2022, poco dopo la (provocatoria) visita di Nancy Pelosi a Taipei, la capacità di Pechino di circondare l'isola e chiuderne completamente lo spazio aereo e marittimo, bloccandone rifornimenti di qualsiasi tipo.
Cosa ha detto di tanto grave Lai? Nel suo discorso di inizio mandato ha fatto riferimento a Taiwan come «nazione sovrana e indipendente», rivendicandone il ruolo di «anello importante nella catena globale delle democrazie» e puntando il dito contro le azioni coercitive cinesi. Ha dunque chiesto a Pechino di «cessare le intimidazioni politiche e militari», elogiando gli Stati Uniti per la recente approvazione dell'Indo-Pacific Security Supplemental Appropriations Act.
Ha in sostanza confermato l'approccio ideologico del Partito Democratico Progressista (PDP) taiwanese, al governo ininterrottamente dal 2016, e della Coalizione Pan-Verde (centro-sinistra), di cui è forza politica principale. Tra gli slogan salienti compaiono infatti la ricerca dell'indipendenza, il sostegno alla «democrazia globale», il rafforzamento del partenariato militare con gli Stati Uniti, la legalizzazione dei matrimoni omosessuali e la pretesa che Pechino rinunci al suo obiettivo di annessione.
Eppure, al di là dei richiami all'unità e alla compattezza della società e della politica, i recenti disordini scoppiati all'interno dello Yuan legislativo con vere e proprie risse tra deputati, hanno evidenziato la forte polarizzazione che sta vivendo Taiwan. Pur avendo vinto alle urne, il PDP ha registrato un calo di circa 2,58 milioni di voti rispetto alle presidenziali di quattro anni fa, perdendo anche la maggioranza parlamentare. Dall'altra parte c'è il Kuomintang - alla guida della coalizione di centro-destra (Pan-Blu), ormai da anni favorevole al dialogo con Pechino - coalizzatosi per l'occasione con il Partito Popolare di Taiwan (PPT), vero e proprio outsider, emerso come terza forza alle ultime elezioni di gennaio.
Quella di Taiwan è una delle tante questioni irrisolte a livello internazionale. L'isola, dove lo sconfitto generale Chiang Kai-shek decise di fuggire nel 1949, all'indomani della caduta di Nanchino, al tempo capitale della Repubblica di Cina, è ormai da settantacinque anni sede di un governo autoproclamatosi erede del disciolto ordine costituito, garantito dal supporto militare degli Stati Uniti, che pure non ne riconoscono più la sovranità da quasi cinquant'anni.
Dopo un ventennio di scontri e schermaglie, sotto la copertura del Trattato di Mutua Difesa USA-Taiwan (1955), con la politica di apertura voluta da Richard Nixon e Henry Kissinger tra il 1971 e il 1972, le cose cominciarono a cambiare. Sebbene Washington non riconobbe immediatamente la Repubblica Popolare Cinese, la strada era ormai tracciata: il 25 ottobre 1971, infatti, l'Assemblea Generale dell'ONU approvò a larga maggioranza la Risoluzione 2758, che dichiarava il governo di Pechino unico legittimo rappresentante della Cina a livello internazionale, espellendo così i rappresentanti di Taipei dal Consiglio di Sicurezza e da tutti gli organismi collegati.
Quando, nel gennaio 1979, il presidente Jimmy Carter recepì definitivamente la risoluzione aderendo al cosiddetto principio di 'Una sola Cina', Washington cambiò definitivamente la sua dottrina strategica nei confronti del gigante asiatico, lasciando spirare il Trattato di Mutua Difesa con Taiwan. Il contemporaneo lancio della politica di riforma e apertura, inaugurata proprio in quei mesi da Deng Xiaoping, facilitò ulteriormente le relazioni bilaterali consentendo alle grandi aziende occidentali e giapponesi di investire nel nascente mercato cinese.
Un altro passo in avanti arrivò poi nel 1982 sotto l'Amministrazione Reagan che, sulla scia dei suoi illustri predecessori, concordò con la parte cinese l'inizio di un percorso di graduale diminuzione quantitativa e qualitativa della fornitura di armamenti a Taiwan sino ad una «soluzione definitiva», chiaramente da intendersi come un completo azzeramento.
I documenti usciti da questi tre vertici bilaterali - 1972, 1979 e 1982 - vengono ancora oggi ricordati in Cina e nel mondo come i tre comunicati congiunti, che vanno a costituire la base giuridica fondante, assieme alla Risoluzione 2758, delle relazioni tra Pechino e Washington e della questione taiwanese. Tutte le altre decisioni compensative, pensate cioè per controbilanciare le precedenti e continuare a garantire una qualche forma di supporto a Taipei, come ad esempio il Taiwan Relations Act (1979) le Sei Rassicurazioni (ufficiosamente nel 1982, ufficialmente nel 2016), sono atti interni del Congresso degli Stati Uniti e non hanno perciò valore sul piano del diritto internazionale.
A ribadire l'architettura giuridica della questione taiwanese è stato proprio ieri Stephane Dujarric, portavoce capo del Segretario Generale dell'ONU Antonio Guterres, sostenendo in una conferenza stampa che, sulla base della Risoluzione 2758, Taiwan è una provincia della Cina. Malgrado molti osservatori, soprattutto in Occidente, continuino a definire quella di Pechino come una «rivendicazione imperialista» o una «pratica aggressiva», in realtà un'operazione militare cinese su Taiwan sarebbe perfettamente legale, in quanto finalizzata al ripristino della sovranità e dell'integrità territoriale del Paese.
Fin'ora Pechino si è sempre limitata ad esercitazioni dimostrative o dichiarazioni forti, ma è evidente che questa situazione non potrà durare all'infinito e che il mantenimento dello status quo, pur importantissimo, sia proiettabile in un orizzonte temporale di breve o medio periodo. I taiwanesi, che la Cina continua a considerare «compatrioti» o «connazionali», hanno in realtà molte più interazioni e relazioni con la Terraferma di quanto si possa pensare e si trovano a vivere in una situazione sempre più surreale.
Da un lato, le forze indipendentiste, spalleggiate da Washington e dalle fondazioni neo-con statunitensi ed europee, che conducono pericolosamente Taiwan verso la dimensione dello scontro aperto. Dall'altro lato, le imprese, i professionisti, le navi cargo, i turisti e gli studenti che si muovono ogni settimana lungo lo Stretto.
Appaiono insomma maturi i tempi per implementare la soluzione già proposta nel 1993 da Pechino: avviare un processo pacifico di graduale riunificazione secondo il modello 'Un Paese, due sistemi', già applicato a Hong Kong e Macao rispettivamente nel 1997 e nel 1999. Per sciogliere il nodo gordiano di Taiwan non ci sono alternative.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia