Taiwan. Oltre retorica e semplificazioni: alcune considerazioni dopo il voto sull'isola

(ASI) Sabato scorso, le tanto attese elezioni governative di Taiwan hanno emesso il loro verdetto, assegnando al Partito Democratico Progressista (PDP), partito-guida della Coalizione Pan-Verde (centrosinistra), un terzo mandato presidenziale consecutivo dopo i due di Tsai Ing-wen. Secondo gran parte dei commentatori occidentali, la vittoria di Lai Ching-te avrebbe mostrato la forza propulsiva della democrazia locale, lanciando il guanto di sfida a Pechino ed impartendo ai connazionali della Terraferma una specie di "lezione di civiltà".

Tuttavia, come spesso accade, la realtà è molto più complessa ed articolata rispetto al quadro tratteggiato dalla narrazione generalista, frutto di semplificazioni e suggestioni ideologiche. Nonostante i toni trionfalistici di sabato scorso, il consenso delle forze indipendentiste è infatti fortemente calato rispetto a quattro anni fa, in favore non tanto del Kuomintang quanto piuttosto di una formazione politica alternativa, in forte ascesa, che si pone come una 'terza via' tra le due coalizioni principali.

 

INDIPENDENTISMO IN CALO E NUOVO OUTSIDER - Lai, candidato del PDP, ha conquistato il 40,05% dei consensi contro il 57,13% ottenuto da Tsai quattro anni fa. In numeri assoluti, questo divario significa oltre 2,58 milioni di voti in meno. Considerando che Lai è stato per quattro anni il vice di Tsai (2020-2024), per due anni suo primo ministro (2017-2019) ed è presidente del partito da un anno, il risultato appare come una netta bocciatura del lavoro svolto.

Anche il Kuomintang (KMT), formazione politica trainante della Coalizione Pan-Blu (centrodestra), ha registrato un calo dei consensi: il candidato Hou Yu-ih, sindaco in carica di Nuova Taipei ed ex ufficiale di polizia, si è infatti fermato al 33,49% contro il 38,61% conseguito dal predecessore Han Kuo-yu nel 2020: circa 851.000 voti in meno. Beneficiario dell'erosione nel consenso dei due partiti tradizionali è l'outsider Ko Wen-je, apprezzato sindaco indipendente di Taipei dal 2014 al 2022 e leader in carica del Partito Popolare di Taiwan (PPT).

Ispirato al vecchio movimento di resistenza nazionale creato nel 1927 dal medico ed attivista Chiang Wei-shui durante l'occupazione giapponese dell'isola (1895-1945), il PPT è stato fondato appena cinque anni fa, eppure è riuscito ad ottenere un lusinghiero 26,46%, cioè quasi 3,7 milioni di voti, convincendo maggiormente i più giovani. Secondo un sondaggio di MNews dello scorso 27 dicembre, a poco più di due settimane dal voto, il 51% dei taiwanesi di età compresa tra i 20 e i 24 anni si era espresso a favore di Ko, anch'egli affermato medico, contro il 25,7% per Lai e il 10,2% per Hou [Yip W.Y., The Straits Times, 15/1/2024].

Alla base del suo successo ci sarebbe la delusione di molti elettori per le mancate promesse di Tsai e, più in generale, la stanchezza verso un dibattito ritenuto eccessivamente ideologico, spesso troppo focalizzato sui dossier relativi alle relazioni con Pechino e Washington, e poco attento alle esigenze economiche e sociali interne.

A complicare il mandato del neo-eletto Lai ci si saranno poi tutte le prevedibili difficoltà rispetto ad uno Yuan (Camera unica) dove il PDP è finito addirittura in minoranza, ottenendo alle simultanee elezioni legislative soltanto 51 seggi (-10 sulla tornata precedente) contro i 52 del KMT (+14) e gli 8 del PPT (+3): una situazione bloccata, in cui nessun partito ha la maggioranza assoluta. Fuori dallo Yuan è rimasto invece il New Power Party, una delle formazioni più accanitamente indipendentiste, incapace di superare lo sbarramento del 5%, perdendo tutti e tre i seggi conquistati quattro anni fa.

 

UNA CRESCENTE POLARIZZAZIONE - Con la democratizzazione avvenuta dopo il 1987, quando si concluse quasi un quarantennio di rigida legge marziale, il panorama politico taiwanese cominciò gradualmente ad assumere le sembianze del sistema politico statunitense, con due partiti principali capaci di calamitare il consenso di gran parte dell'opinione pubblica. A partire dagli anni Novanta, il KMT, ristrutturato su nuove basi, accantonò nei fatti le rivendicazioni nazionalistiche del partito sull'intera Cina [e sulla Mongolia] a lungo avanzate dalla vecchia generazione, trainata per quasi un trentennio dall'autocrate Chiang Kai-shek (1949-1975), aprendosi al commercio e alla diplomazia con Pechino sulla base di una piattaforma di dialogo conosciuta col nome di Consensus 1992.

Complici gli eccessi e le repressioni del KMT nel periodo marziale, nel nuovo contesto pluralistico e multipartitico cominciò tuttavia a farsi largo il PDP che, rifiutando la lettura nazionalistica dei suoi rivali politici, introdusse un'idea di identità taiwanese distinta e separata, creatasi de facto nel corso del secondo Novecento sulla base delle differenze politiche, sociali, economiche e culturali tra le due sponde dello Stretto.

Così, la Coalizione Pan-Verde, di cui il PDP è alla guida, si è fatta alfiere, a partire dagli anni Duemila, dell'indipendentismo locale, guadagnandosi il sostegno di diverse figure politiche, organizzazioni e fondazioni occidentali, di impronta sia liberal che neoconservatrice, interessate a fare di Taiwan un avamposto ideologico e militare da contrapporre a Pechino.

Il processo di distensione e normalizzazione nelle relazioni tra le due sponde intrapreso durante la presidenza di Ma Ying-jeou (2008-2016), ultimo governatore dell'isola in quota KMT ed artefice della linea dei 'tre-no' ["nessuna unificazione, nessuna indipendenza e nessun uso della forza"], culminò nello storico incontro con Xi Jinping a Singapore del 7 novembre 2015, iniettando ulteriore linfa ad una sempre più netta polarizzazione nel tessuto sociale taiwanese tra un "fronte pacificatore", composto per lo più [ma non solo] da imprenditori, commercianti, professionisti ed altre forze produttive interessate a mantenere solide le vitali relazioni economiche con la Cina continentale, ed un "fronte intransigente", in buona parte formato da attivisti per i diritti umani, militanti, artisti e intellettuali [o, per lo meno, sedicenti tali...].

 

DIRITTO INTERNAZIONALE: LE RAGIONI DI PECHINO - In realtà, il KMT non ha ancora ufficialmente rinunciato all'intenzione storica di riconquistare l'intero territorio della vecchia Repubblica di Cina, decaduta nel 1949 al termine dell'ultima fase della guerra civile cinese, quando l'Esercito Popolare di Liberazione, guidato da Mao Zedong e Zhu De, scalzò i residuali avamposti nemici sulla Terraferma per poi dichiarare il primo ottobre a Pechino la nascita della Repubblica Popolare Cinese, sostenuta anche dall'ala sinistra del vecchio Kuomintang, tutt'oggi rappresentata dal "Comitato Rivoluzionario del Kuomintang Cinese" (RCCK), che conta 14 deputati all'Assemblea Nazionale del Popolo e 65 seggi alla Conferenza Politico-Consultiva del Popolo.

La fuga di Chiang Kai-shek e dei suoi seguaci sull'isola di Taiwan lasciò così aperta la disputa internazionale in merito alla rappresentatività. La Dichiarazione del Cairo (1943), implementata a Potsdam nel 1945, aveva infatti riconosciuto al Paese asiatico, uscito vincitore con gli Alleati dalla Seconda Guerra Mondiale, il diritto di rientrare in possesso di tutti i territori sottratti illegalmente dal Giappone nei decenni precedenti, tra cui la Manciuria, Formosa (Taiwan) e le Isole Pescadores (Penghu, oggi territorio amministrato da Taiwan).

Tuttavia nel 1949, con l'ascesa al potere del Partito Comunista Cinese, gli Stati Uniti, per ragioni ideologiche e geopolitiche, non riconobbero la continuità legale tra la nuova leadership e la Cina pre-rivoluzionaria, e si impegnarono militarmente per difendere Taiwan.

La diatriba rimase aperta sino al 25 ottobre 1971, quando l'ONU approvò ad ampia maggioranza la Risoluzione 2758, tutt'ora in vigore, che stabilì l'esistenza di un'unica Cina legalmente riconosciuta, ovvero quella rappresentata da Pechino, espellendo automaticamente i rappresentanti di Taiwan dal Consiglio di Sicurezza e da tutti gli altri organi collegati alle Nazioni Unite. Il nuovo corso di politica estera inaugurato dal presidente statunitense Richard Nixon, coadiuvato dal fido consigliere Henry Kissinger, fece il resto aprendo la strada per la Cina comunista alle diplomazie occidentali.

Da allora seguirono tre comunicati congiunti tra Pechino e Washington, pubblicati rispettivamente nel 1972, nel 1979 e nel 1982. In particolare, quello del 1979, firmato da Jimmy Carter e Deng Xiaoping, riconosce anche da parte americana il principio di 'Una sola Cina': un punto fermo del diritto internazionale, ad oggi fatto proprio da 182 dei 193 Stati membri ONU. Da ultimo Nauru, piccola isola della Micronesia, che proprio due giorni fa ha ufficialmente annullato le sue relazioni diplomatiche con Taipei e contestualmente avviato quelle con Pechino.

Malgrado gli impegni assunti sulla questione degli armamenti all'interno del comunicato congiunto del 1982, firmato dall'Amministrazione Reagan, Washington ha sin qui continuato a fornire a pieno regime mezzi ed apparecchiature militari a Taiwan. La Cina, che da allora non ha mai messo in campo alcuna soluzione militare contro quelli che considera i "compatrioti di Taiwan", limitandosi tutt'al più ad esercitazioni ed avvertimenti, propose nel 1993 una soluzione pacifica e graduale per la riunificazione, che prevede l'adozione del modello 'Un Paese, due sistemi', già utilizzato per Hong Kong e Macao.

In questo modo, Taiwan, riunificata alla Terraferma, godrebbe per un cinquantennio di una marcata autonomia amministrativa, legislativa, giudiziaria, economica e finanziaria, lasciando logicamente a Pechino la sovranità in materia di difesa e politica estera. Il tempo - che vede la Cina avanzare a ritmi serrati sul piano delle riforme, delle tecnologie e del commercio - farebbe il resto.

 

Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

 
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