(ASI) La Cina è oggi tra i principali garanti della finanza orientata allo sviluppo a livello globale. A dirlo è stata Beate Trankmann, rappresentante residente del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite in Cina, durante il quarto Cina and International Development Forum, svoltosi ieri a Pechino, in collaborazione con l'Accademia Cinese per il Commercio Internazionale e la Cooperazione Economica (CAITEC).
«Promuovendo scambi di conoscenze nelle due direzioni ed una cooperazione basata sulla domanda che attinga alle migliori pratiche e norme internazionali, la Cina ha l'opportunità di contribuire all'avanzamento dei risultati di sviluppo sostenibile nei Paesi partner in settori quali la transizione energetica e la finanza verde, accrescendo la sua forza ed esperienza», ha sottolineato la funzionaria dell'ONU.
Stando ai dati provenienti dal Palazzo di Vetro, a pochi giorni dall'inizio del nuovo anno e con il costante avvicinamento al traguardo del 2030, fissato otto anni fa, nel mondo è stato raggiunto soltanto il 15% degli obiettivi di sviluppo sostenibile, gettando le prospettive dell'Agenda ONU in una situazione praticamente disperata.
«Dopo tre anni di shock e crisi sovrapposte tra loro, come pandemia e conflitti, molti Paesi in via di sviluppo stanno affrontando un crescente restringimento dello spazio fiscale ed una crescita vertiginosa del debito», ha proseguito con preoccupazione la stessa Trankmann, spiegando che «l'impatto combinato di queste sfide ha ritardato di decenni i passi in avanti nello sviluppo globale», mentre l'emergenza climatica «continua a peggiorare, minacciando la stessa esistenza dell'umanità».
Per la parte cinese è intervenuto Li Junhua, ex ambasciatore in Italia, da pochi mesi nominato sottosegretario all'ONU per gli Affari Economici e Sociali, che ha voluto evidenziare programmi di lungo termine di Pechino quali l'Iniziativa di Sviluppo Globale (GDI), lanciata da Xi Jinping nel settembre 2021, e l'Iniziativa Belt and Road (BRI), presentata dieci anni fa ad Astana durante una visita ufficiale del capo di Stato cinese in Asia Centrale. Entrambe sono fortemente caratterizzate da progetti e investimenti in materia di innovazione e sostenibilità, mettendo a disposizione dei Paesi più poveri un avanzato know-how tecnologico ed infrastrutturale in cambio di una maggiore connettività intercontinentale per l'economia cinese.
«Al giugno scorso, la Cina aveva siglato oltre 200 accordi di cooperazione BRI con più di 150 Paesi e 30 organizzazioni internazionali nei cinque continenti, concludendo parecchi tra progetti di prestigio e progetti di minori dimensioni ma comunque d'impatto», ha precisato Li, citato da Xinhua, che ha posto l'accento sul «grande ottimismo» generato dal contributo cinese al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile.
«Il modello cinese di cooperazione allo sviluppo è stato costruito attraverso oltre settant'anni di pratiche e sacrifici», ha ricordato invece Yu Zirong, vicepresidente della CAITEC, che ha aggiunto: «Questo modello è efficiente e pragmatico, verde ed inclusivo, e persegue l'eguaglianza, il beneficio reciproco e risultati dal mutuo vantaggio senza interferire negli affari interni degli altri Paesi o ponendo condizioni politiche».
Derivato dai cinque principi di coesistenza pacifica, l'approccio di Pechino alla cooperazione internazionale si richiama alle origini della tradizione diplomatica della Repubblica Popolare, quando l'attivismo dell'allora primo ministro e ministro degli Esteri Zhou Enlai rese il Paese protagonista alla Conferenza di Bandung del 1955, che ispirò negli anni successivi la nascita del Movimento dei Non Allineati.
Il rifiuto delle logiche egemoniche e la condanna del colonialismo e dell'imperialismo - fenomeni che la Cina subì ripetutamente per mano europea e giapponese tra il 1839 e il 1945 pagando un prezzo altissimo in termini di vite umane e territori sottratti - conferiscono ancora oggi al Paese asiatico un profilo credibile ed autorevole agli occhi delle leadership del Sud Globale.
Malgrado le tesi diffuse negli ultimi anni da alcuni opinionisti e think-tank occidentali sul presunto "colonialismo cinese" in Africa o sulla supposta "trappola del debito" che avrebbe messo in moto in alcuni Paesi BRI, la Cina continua a mietere successi diplomatici nelle aree in via di sviluppo del pianeta, incrementando il numero degli Stati che hanno ufficialmente riconosciuto Pechino rompendo le relazioni con Taiwan, come El Salvador nel 2018, il Nicaragua nel 2021 e l'Honduras quest'anno, oltre ad intensificare il commercio con gli stessi partner BRI: come riporta sempre Yu Zirong, tra il 2013 e il 2022, il valore complessivo dell'import-export con i Paesi aderenti alla Nuova Via della Seta ha totalizzato oltre 19.000 miliardi di dollari, con una crescita media annua del 6,4%, mentre gli investimenti nelle due direzioni hanno raggiunto i 380 miliardi di dollari.
Inoltre, l'interscambio commerciale con l'Africa è cresciuto del 14,8% nel 2022 e del 7,4% su base annua nei primi sette mesi di quest'anno, con Sudafrica, Nigeria e Angola primi tre partner commerciali per la potenza asiatica nel Continente. La Cina è ormai saldamente il primo mercato di destinazione delle esportazioni di beni africani, che nei primi sette mesi del 2023 hanno raggiunto un volume pari a 60,26 miliardi di dollari: non solo petrolio, minerali ferrosi e rame ma anche prodotti agricoli, aumentati del 20% su base annua, tra cui prodotti acquatici e vino [Global Times, 23/8/2023].
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia