(ASI) Un anno fa aveva inizio in Tunisia un moto di dissenso destinato a propagarsi ed a stravolgere gli assetti geopolitici di tutta la regione mediorientale e nordafricana. I media occidentali accolsero gli eventi dapprima con circospezione, poi con tiepido entusiasmo, infine con squilli di tromba tali da far coniare per quelle esperienze - invero contraddistinte da ingenti sacrifici di sangue e da un intromissivo intervento militare internazionale in Libia - un romantico termine giornalistico: “primavera araba”.
Ad un anno dall’accensione di quella miccia che ha infuocato una regione dall’enorme peso geopolitico, è tempo di bilanci su quello che è stato finora e di domande sulle prospettive future, attualmente ancora colme di tante, troppe incognite. Una di queste incognite è relativa ai conflitti interconfessionali e al destino delle comunità cristiane, la cui presenza appare seriamente minacciata in molti Paesi arabi. Agenzia Stampa Italia ha l’onore di parlarne con Sua Beatitudine Gregorios III Laham. Il Patriarca di Antiochia dei Greco-Melkiti, residente a Damasco, capitale dell’agitata Siria, è stato lo scorso fine settimana ospite della parrocchia romana di Sant’Ignazio d’Antiochia allo Statuario.
Beatitudine, come è cambiata la situazione dei cristiani nei Paesi arabi dall’inizio della cosiddetta “primavera araba” ad oggi?
Bisogna fare delle precisazioni quando si parla di cristiani nel mondo arabo. La più grande presenza autoctona è in Egitto, dove opera principalmente la chiesa copta, sia cattolica che ortodossa. In altri Paesi arabi - a parte l’eccezione della Siria, dove la componente cristiana è consistente - i cristiani sono soprattutto rappresentati da emigrati stranieri. E’ in Egitto, dunque, che i cristiani costituiscono una forza politica, storica, culturale, etnica importante, la quale ha da sempre il suo peso nelle questioni del Paese. Essi, infatti, hanno svolto un ruolo attivo durante le rivolte, tanto che si contano dei martiri di questa “primavera araba” nelle file dei cristiani.
E’ vero, in Egitto esistono anche problemi tra musulmani e cristiani, ma la loro origine non va ricondotta alla “primavera araba” - che forse l’ha solo un po’ esacerbata per via della situazione di caos -, bensì in questioni precedenti. Oggi, l’incertezza che regna in Egitto desta preoccupazione tra molti cristiani: si teme un’ascesa dell’estremismo islamico, dei Fratelli Musulmani o dei salafiti, per esempio. La risposta che molti cristiani, tuttavia, hanno deciso di contrapporre a queste paure è una prova di dinamismo e forza. Nel maggio scorso cristiani e musulmani insieme hanno contribuito a stilare un documento, “Raccomandazioni per il futuro dell’Egitto” - diffuso dall’università islamica al-Azhar (massima autorità del mondo islamico) -, il quale offre importanti indicazioni per conseguire la pace. Lo scorso 8 gennaio è uscita inoltre una seconda parte (“Documento sulle libertà fondamentali”) che è stata accolta con favore anche dal Papa Shenuda III di Alessandria (Papa della Chiesa ortodossa-copta, NDR), il quale ha presieduto la presentazione ufficiale del documento. Se oggi esiste una speranza circa l’avvenire delle relazioni interconfessionali in Egitto, credo che sia rappresentata da questi due documenti.
Al di là di quanto traspare a noi attraverso il filtro mediatico, può raccontarci qual è la situazione attualmente in Siria, Paese nel quale Lei vive?
Anzitutto ci tengo a sgomberare il campo da fraintendimenti: le relazioni tra cristiani e musulmani non hanno responsabilità nell’attuale conflitto. La causa di quello che sta accadendo è esclusivamente politica e interna al mondo islamico. Alla base del conflitto il fatto che il regime è presieduto dagli alawiti, gruppo islamico che da decenni governa la Siria pur essendo in minoranza rispetto ad altri gruppi. Gli equilibri precari all’interno del mondo islamico sono un elemento religioso duro da scardinare, che ora è scoppiato e si è riversato nella politica nei termini feroci che stiamo vedendo.
Tuttavia, malgrado le violenze frequenti, non credo che sia adatto parlare di rivoluzione. In alcuni settori della società c’è volontà di cambiare dei tratti di questo regime, è vero, a cui è però opportuno riconoscere molti meriti oggettivi: in Siria si registra un alto tasso di alfabetizzazione rispetto al resto del mondo arabo, la libertà di stampa, lo sviluppo agricolo e industriale, le infrastrutture, i vivaci scambi commerciali con l’estero. Prima che iniziassero i tumulti della “primavera araba” la Siria era un Paese sicuro, il più sicuro tra i Paesi arabi. Sicurezza che possiamo testimoniare noi cristiani, dato che la nostra vita religiosa in Siria è sempre stata serena e regolare, contraddistinta da un’alta partecipazione alle liturgie, alle conferenze, ai catechismi e a tutte le altre nostre attività. Finora questa tranquillità si è mantenuta e non è in pericolo, i cristiani siriani godono del rispetto di tutta la popolazione. L’Occidente non deve travisare questa realtà, ovvero che i cristiani non corrono alcun rischio in Siria perché non è la nostra presenza la causa del conflitto.
Crede che le insurrezioni siriane possano essere manovrate da forze esterne al Paese, le quali trarrebbero giovamento da un'eventuale caduta del regime di Assad?
Oggi il mondo, con i suoi sviluppi geopolitici, è molto sofisticato. Le racconto un episodio. C’era una donna che faceva le pulizie in casa di un’anziana signora di mia conoscenza. A un certo punto, non si è fatta più vedere. L’anziana allora l’ha chiamata per chiederle il motivo di questa improvvisa assenza. Ebbene, la donna delle pulizie le ha risposto: signora, non vengo più perché ho trovato un’attività più remunerativa, esco ogni giorno a manifestare per mezz’ora, e in tre giorni guadagno più di quello che lei mi dà per un mese. E ancora. Nella mia città, Darayya, mi hanno raccontato che esistono gruppi di giovani che escono di casa ogni giorno a manifestare, ad attaccare la polizia, in cambio di denaro.
Io sono sicuro che là dove vi sono manifestazioni pacifiche non c’è reazione violenta da parte della polizia, la quale è costretta ad intervenire militarmente solo per difendersi dagli attacchi che provengono da questi elementi ambigui, probabilmente manipolati dall’estero. Sarebbe assurdo pensare che il regime possa ordinare alla polizia di usare le maniere forti, soprattutto se si considerano le pressioni cui è sottoposto dalla comunità internazionale. Ci sono dei provocatori che hanno lo scopo di creare tensione, essi sono il pericolo per il futuro della Siria.
A proposito di manipolazioni, stavolta mediatiche, la stampa occidentale insiste con il raccontarci una realtà duale: da una parte una diffusa insofferenza popolare che sfocia in rivolte, dall’altra un regime tirannico che reprime...
Oggi (sabato 21 gennaio, NDR), mentre ero in viaggio sull’aereo, ho letto il giornale tedesco Zeitung. Vi erano due pagine intere dedicate alla Siria che erano un vero e proprio manifesto a favore degli oppositori, il regime veniva descritto come il più sanguinario che il mondo abbia mai conosciuto. Le uniche fonti citate nel pezzo erano Al Jazeera e Al Arabiya, certo non organi di stampa neutrali. Se i media, in Occidente, fanno un’informazione di parte, è naturale che l’opinione pubblica abbia una visione distorta della Siria.
Da cristiano ci tengo a ribadire un concetto che gli occidentali debbono comprendere, se davvero auspicano un futuro di pace per il mondo arabo: la ricchezza dei nostri Paesi è data dalla molteplicità culturale, non dal petrolio. Se si vuole iniziare un dialogo che sia proficuo per il futuro si deve partire da questo assunto, e ne gioverebbero anche le relazioni tra cristiani e musulmani all’interno dell’Europa poiché accrescerebbero fiducia e curiosità reciproche.
Le manipolazioni esterne delle rivolte sono un pericolo che, innescate in Siria, possono sfociare anche al di fuori dei suoi confini.
L’ipotesi di un intervento internazionale, magari militare come avvenuto in Libia, crede che possa essere una soluzione percorribile per porre fine alle violenze in Siria?
In Libia, dai musulmani, l’intervento militare è stato interpretato come una “nuova crociata” contro l’Islam. Intervenire con le armi, dunque, non fa altro che peggiorare i rapporti tra cristiani e musulmani, diffondendo il fanatismo. La mia politica è il dialogo, l’ho fatto presente ai leader occidentali quando ho avuto modo di confrontarmi con loro sul tema delle rivolte nella nostra regione. D’altronde questa è la strada che tutti dovremmo percorrere per raggiungere dei risultati che siano soddisfacenti.
Preso atto che la missione della Lega Araba in Siria si è conclusa, che le violenze continuano imperterrite, chi dovrebbe lavorare per costruire processi di cambiamento pacifici? Prorogare la missione della Lega Araba, incrementando il numero di osservatori, può essere una soluzione?
Confidiamo nell’impegno della Lega Araba. Attendiamo ora che i suoi osservatori pubblichino le loro referenze. Speriamo che siano oggettive e non di parte, questo farebbe il bene della Siria e solleciterebbe il regime ad instaurare una nuova stagione di pace.
Lo scorso 3 gennaio ho incontrato il Segretario generale della Lega Araba, Nabil el-Araby, al quale ho presentato le mie proposte per uno sviluppo della Lega Araba. L’ho invitato a lavorare al fine di rendere questa istituzione più ad ampio respiro e non particolaristica, è necessario che diventi la voce di una coscienza collettiva di tutto il mondo arabo. In questo senso potrebbe essere utile redigere una “carta dei diritti dell’uomo moderno arabo”, viatico per un cambiamento interno pacifico di tutta la regione, non solo di una sua pur importante parte qual è la Siria.
In Siria i cristiani temono che la caduta del regime di Assad, storicamente laico e molto tollerante con la minoranza cristiana, possa far emergere al potere gruppi islamisti ostili agli altri gruppi religiosi?
Come ho spiegato prima, è naturale che la situazione di incertezza desti preoccupazione nel Paese. Le apprensioni sono comuni a tutte le comunità religiose della Siria, nessuno guarda con ottimismo all’eventualità di un futuro senza il regime di Assad, che finora è stato una garanzia di stabilità e pacifica convivenza interconfessionale. Comunque, ripeto, le maggiori insidie sono interne ai gruppi islamici e, per ora, non coinvolgono i cristiani. Noi cristiani non abbiamo paura del futuro, forti di una lunga tradizione di cordialità e convivenza con gli islamici nella regione.
Sia chiaro: per preservare il carattere arabo della nostra grande regione, è fondamentale tutelare la presenza cristiana. Senza cristiani, il mondo arabo cesserebbe di esistere, perché la nostra è una componente indispensabile dell’arabismo, e vi sarebbe solo un mondo musulmano.
Come valuta l’atteggiamento della Santa Sede rispetto a quanto sta avvenendo nel mondo arabo?
C’è da riconoscere che la Santa Sede, con i Papi che si sono susseguiti, è sempre stata coerente e positiva nel mantenere una posizione equilibrata su quella che è l’origine di tutti i conflitti nel Medio Oriente, ossia il conflitto israelo-palestinese. Quella della Santa Sede rimane la posizione migliore rispetto a quanto avviene in Terra Santa, a fronte di un atteggiamento ondivago di molti Stati europei sul tema.
Mi spiace che le parole di Benedetto XVI sulle violenze nel mondo arabo - seguite ad una strage di cristiani avvenuta durante il capodanno del 2011 - siano state male interpretate da Al-Azhar. Mi auguro che le incomprensioni possano appianarsi e far posto all’apertura e al dialogo reciproci. Ciò che proporrei è la nascita di iniziative concrete da mettere in campo per perseguire il dialogo, unico antidoto ai problemi del mondo arabo.
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