Cina. Ennesima tensione a Taiwan, ma l'isola non è l'Ucraina: il diritto dà ragione a Pechino

Zhao(ASI) Con la visita di alcuni rappresentanti del Congresso statunitense a Taiwan è scoppiato un nuovo momento di tensione tra Pechino e Washington. La risposta del governo cinese non si è fatta attendere e l'Esercito Popolare di Liberazione ha effettuato proprio nelle scorse ore un'esercitazione militare  attorno all'isola, come spiegato dal Comando del Teatro Orientale in un comunicato ufficiale.

La settimana scorsa era circolata per giorni l'ipotesi della presenza nella delegazione di Nancy Pelosi, portavoce della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, ma la sua dichiarata positività al Covid-19 le ha impedito di svolgere il programmato viaggio in Asia Orientale, anche se c'è chi dice che in realtà potrebbe aver trovato un pretesto per evitare un incidente diplomatico con Pechino. Il Ministero degli Esteri cinese aveva infatti annunciato l'adozione di misure severe nel caso in cui la Pelosi, che nella linea di successione presidenziale statunitense è la seconda carica nel Paese dopo il vicepresidente, avesse messo piede a Taipei, lanciando un «messaggio sbagliato» e ponendo in discussione «la sovranità e l'integrità territoriale del Paese».

Quando si parla a livello mainstream della questione di Taiwan, soprattutto nei Paesi occidentali, si utilizza spesso un frasario "cinico" e spietato, presentando scenari da Risiko per eccitare lo sprovveduto lettore in un senso o nell'altro attraverso titoli sensazionalistici, quasi studiati al solo scopo di acchiappare click. Per comprendere a fondo la questione, come in tutti i casi analoghi, è invece fondamentale prendere in esame il contesto specifico, approfondire i documenti ed attenersi, laddove possibile, al diritto internazionale.

 

I primi due comunicati congiunti

La leadership del colosso asiatico ha in particolare lamentato quella che considera l'ennesima deviazione della Casa Bianca dal principio di Una sola Cina, pietra angolare delle relazioni sino-statunitensi sin dal 28 febbraio 1972, quando l'allora presidente Richard Nixon e Mao Zedong misero nero su bianco il Comunicato di Shanghai, primo storico documento negoziale tra la Cina Popolare e gli Stati Uniti.

In merito allo status politico e giuridico di Taiwan, la parte nordamericana dichiarava di «riconoscere formalmente che tutti i cinesi su entrambe le sponde dello Stretto sostengono una sola Cina», senza tuttavia ancora specificare quale Cina intendesse, dal momento che il governo nazionalista del Kuomintang, in carica de facto sin dal 1950 sulla base di un codice marziale, rivendicava la continuità politico-costituzionale con la Repubblica di Cina, fondata da Sun Yat-sen nel 1911 e decaduta automaticamente nel 1949 in seguito alla conquista del potere da parte del Partito Comunista Cinese.

I rapporti istituzionali tra Pechino e Washington presero il via ufficialmente soltanto sette anni più tardi a seguito della firma del Comunicato Congiunto sull'Avvio delle Relazioni Diplomatiche, recepito dal presidente Jimmy Carter dopo un vertice con Deng Xiaoping. Con questo secondo comunicato, a partire dal primo gennaio 1979, gli Stati Uniti aderirono esplicitamente alla risoluzione 2758 dell'ONU che, il 25 ottobre 1971, aveva già estromesso Taiwan dall'Assemblea Generale, riconoscendo la Repubblica Popolare come unico rappresentante legale della Cina a livello internazionale. Carter dichiarò di conseguenza concluso anche il Trattato di Mutua Difesa Sino-Americano del 1954, in base al quale Washington si era fino a quel momento impegnata a supportare militarmente Taiwan.

Per controbilanciare la decisione di Carter, in quegli stessi mesi il Congresso spinse per l'approvazione di un atto interno, il Taiwan Relations Act, poi firmato dallo stesso presidente, che impegnasse la superpotenza americana al mantenimento di relazioni «sostanziali», seppur non diplomatiche, con Taiwan, perpetuando un atteggiamento di "ambiguità strategica" o "ambiguità costruttiva", come l'aveva già definita Henry Kissinger dopo i primi negoziati del 1972. Lo scopo di Washington era evidente: cercare di aggirare gli accordi bilaterali con Pechino per mantenere in qualche modo il controllo sull'isola principale (Formosa) e i suoi possedimenti limitrofi (Penghu, Kinmen e Matsu).

 

Il terzo comunicato congiunto e la vendita di armi

Nei primi anni Ottanta, il piano di riforma e apertura di Deng Xiaoping si traduceva, nell'ambito della politica estera, in un'operazione di normalizzazione dei confini, alla ricerca di una complessiva distensione con tutti i vicini, dopo le numerose crisi e i drammatici conflitti che le logiche della Guerra Fredda avevano scatenato in Asia Orientale tra il 1950 e il 1978. Non c'era motivo, insomma, per ritenere credibile un'invasione violenta di Taiwan da parte cinese, tanto più in vista delle imminenti trattative con il Regno Unito (1984) e il Portogallo (1986) per la restituzione concordata di Hong Kong e Macao, a quel tempo ancora appartenenti ai due ex imperi coloniali.

È in questo quadro che il 17 agosto 1982, Cina e Stati Uniti firmarono un terzo comunicato congiunto che ribadiva, anche sotto la presidenza Reagan, quanto sancito nel 1979 a proposito dello status politico e giuridico di Taiwan. Dei nove punti complessivi di cui si compone, due in particolare fanno riferimento alla questione della vendita di armi da parte statunitense al governo dell'isola, ancora oggi nodo gordiano della contesa.

Al punto 6, Washington precisava che non era tra le sue intenzioni quella di «attuare una politica a lungo termine di vendita di armi a Taiwan» e si impegnava a ridurne le forniture affermando che le vendite di armi non avrebbero superato «in termini né qualitativi né quantitativi, il livello di quelle fornite negli ultimi anni a partire dall'avvio delle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Cina». Il testo proseguiva spiegando che la parte statunitense «intende ridurre gradualmente le sue vendite di armi a Taiwan, sino a raggiungere, in un certo periodo di tempo, una soluzione definitiva».

Al  punto 7, inoltre, le parti concordavano che «allo scopo di giungere, in un certo periodo di tempo, ad una soluzione definitiva in merito alla questione della vendita statunitense di armi a Taiwan, che è una questione radicata nella storia, i due governi si adopereranno per adottare misure e creare condizioni favorevoli alla risoluzione completa di questo problema».

Sono ormai passati quarant'anni da allora e gli Stati Uniti hanno sempre continuato a rifornire regolarmente le forze armate taiwanesi, con il record toccato nel 2001 dall'Amministrazione George W. Bush [18 miliardi di dollari in armamenti approvati in un solo anno], venendo meno a quanto sancito dai Tre Comunicati Congiunti, perno delle relazioni sino-statunitensi.

A peggiorare il quadro è stata poi l'approvazione di leggi unilaterali come il già citato Taiwan Relations Act o le Sei Garanzie (Six Assurances), un documento che circolava informalmente sin dagli anni Ottanta e che, appena sei anni fa, è stato adottato ufficialmente dalla Camera dei Rappresentanti attraverso una risoluzione non-vincolante. Il comportamento ambiguo degli Stati Uniti ha costretto Pechino ad approvare nel 2005 una Legge anti-secessione che include l'opzione militare nel caso in cui Taipei dovesse dichiarare unilateralmente la sua indipendenza dalla Cina continentale.

In conferenza stampa, ieri, il portavoce del Ministero degli Esteri Zhao Lijian è stato chiaro al riguardo: «La questione di Taiwan è un'eredità della guerra civile cinese. La Cina deve essere e sarà riunificata. Ci batteremo per la prospettiva di una riunificazione pacifica con la massima sincerità e il massimo sforzo. Detto questo, ci riserviamo l'opzione di adottare tutte le misure necessarie in risposta alle interferenze di forze straniere e alle attività secessioniste da parte di una manciata di separatisti che sostengono l''indipendenza di Taiwan'».

Richiamando le vicende storiche, Zhao ha anche ribadito che «il cosiddetto Taiwan Relations Act escogitato da parte nordamericana va contro i principi dei Tre Comunicati Congiunti sino-statunitensi e le norme fondamentali che governano le relazioni internazionali» e ha sottolineato che «gli Stati Uniti non possono porre la loro legge interna al di sopra del diritto internazionale».

 

Riunificazione, tendenza già scritta

Il ragionamento fatto da Zhao per il Taiwan Relations Act vale, evidentemente, anche per le Sei Garanzie. La scelta di tirarle fuori dai cassetti del passato ed approvarle ufficialmente il 16 maggio 2016, negli ultimi mesi del secondo mandato di Obama, rientra in un'operazione politica ben precisa, avviata quattro giorni prima che l'indipendentista Tsai Ing-wen assumesse la guida del governo locale, a seguito dell'affermazione della Coalizione Pan-Verde, guidata dal Partito Democratico Progressista, alle elezioni del gennaio precedente.

In questi sei anni, la politica di Tsai ha pericolosamente alzato il livello della tensione nello Stretto e bloccato il processo di riavvicinamento pacifico inaugurato con la nuova generazione del Kuomintang nel 1992, culminato nello storico incontro di Singapore tra Xi Jinping e l'ex governatore di Taiwan Ma Ying-jeou del 7 novembre 2015.

Sulla base del diritto internazionale e di quanto stabilito dai Tre Comunicati Congiunti, Pechino potrebbe decidere in qualsiasi momento di riprendere Taiwan con la forza senza che il Consiglio di Sicurezza dell'ONU [di cui per altro la Cina è membro permanente con potere di veto] possa opporre alcuna resistenza o varare alcun tipo di sanzione. Eppure, negli ultimi cinquantuno anni non l'ha mai fatto. Timore di una reazione forte da parte statunitense? Forse un tempo. Oggi, per varie ragioni, un impegno diretto del Pentagono nell'area appare molto più facile a dirsi che a farsi, specie considerando che l'eventuale teatro di guerra sarebbe un'isola relativamente piccola, a poche miglia dalla Terraferma. Non è questo, dunque, il vero motivo per cui la Cina continua a privilegiare la soluzione pacifica.

Al di là della politica, la realtà mostra infatti che le due economie sono fortemente interconnesse. Stando ai dati dell'Autorità Finanziaria di Taiwan, l'export complessivo dell'isola verso la Cina continentale e Hong Kong nel 2021 è cresciuto del 24,8% rispetto al 2020, raggiungendo un volume pari a 188,91 miliardi dollari, ovvero il 42,3% delle esportazioni totali taiwanesi [contro il 14,7% assorbito dagli Stati Uniti], grazie in particolare al settore dei semiconduttori, dominato dal colosso locale TSMC, ma non solo. Nello stesso periodo, l'import di Taiwan da Cina continentale e Hong Kong è aumentato del 29,9%, toccando quota 84,17 miliardi di dollari. La bilancia degli scambi commerciali pende chiaramente dalla parte di Taiwan, con un surplus pari a 104,74 miliardi di dollari.

Paradossalmente, ma fino a un certo punto, il benessere socio-economico e la stabilità politica di Taiwan si reggono sul commercio, in costante crescita, con la Cina continentale. Tsai lo sa bene e, al di là degli slogan, non potrà mai rompere davvero le relazioni con Pechino. Allo stesso modo, il governo cinese sa che Tsai è giunta al suo secondo ed ultimo mandato. Dopo di lei, qualsiasi scenario è aperto. Come direbbero i tedeschi, Wandel durch Handel.

 

Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

 

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