(ASI) La foto ha fatto ancora una volta il giro del Paese, rimbalzando nei social cinesi, a partire da Weibo, la piattaforma di microblogging che conta quasi 600 milioni di iscritti.
L'immagine, iconica ma non certo inedita, ritrae il presidente Xi Jinping impegnato a piantare nuovi alberi assieme ad alcuni bambini in un terreno nel distretto pechinese di Daxing, durante una delle numerose iniziative di questo genere che lo Stato sta promuovendo da dieci anni a questa parte.
Partecipata anche dal vicepresidente Wang Qishan, dal primo ministro Li Keqiang e dagli altri cinque membri dell'Ufficio Politico del Comitato Centrale, Li Zhanshu, Wang Yang, Wang Huning, Zhao Leji e Han Zheng, la giornata ha implicitamente lanciato un nuovo messaggio in patria e all'estero. Se in Europa, a pochi mesi dalle promesse di Glasgow, il Green New Deal rilanciato dalla Commissione Von der Leyen pare già destinato ad un significativo ridimensionamento progettuale alla luce della crisi energetica e delle conseguenze politiche del conflitto in Ucraina, la Cina sembra mantenere la barra dritta sugli obiettivi fissati dalla leadership nel quadro del concetto di "civiltà ecologica".
Il piano di riforestazione e recupero di aree disboscate o desertiche vede da anni il Paese di mezzo saldamente al primo posto mondiale in termini di obiettivi raggiunti. Secondo i calcoli della FAO, tra il 1990 e il 2015, nonostante la massiccia industrializzazione, il colosso asiatico ha restituito al verde una media di 1,94 milioni di ettari all'anno. I dati forniti da Xinhua dicono che negli ultimi dieci anni in Cina sono stati piantati 64 milioni di ettari di alberi, tanto che la superficie forestale nazionale ha raggiunto ormai quota 23,04%, in crescita del 2,68% rispetto al 2012.
L'idea della preservazione e dell'espansione delle aree boschive nacque già alla fine degli anni Settanta, sotto la guida di Deng Xiaoping, che introdusse il piano della "Grande Muraglia Verde", un vasto progetto, costantemente aggiornato nel corso degli ultimi quarant'anni, pensato per arrestare la temuta avanzata del Gobi che, assieme ai vicini Taklamakan, Lop Nur, Tengger e Gurbantünggüt, compone uno dei più grandi sistemi desertici al mondo. Gli sforzi compiuti in particolare negli ultimi vent'anni hanno permesso di ridurre la superficie desertica del Paese di un valore medio pari a 2.424 chilometri quadrati l'anno, una netta inversione di tendenza rispetto alla fine degli anni Novanta, quando le terre aride avevano raggiunto un ritmo di espansione pari a 10.400 chilometri quadrati l'anno.
Nel 2013, durante una di queste giornate di sensibilizzazione ecologica delle nuove generazioni, Xi Jinping sottolineò come le risorse forestali della Cina fossero «ancora scarse» ed il suo sistema ecologico restasse «vulnerabile». Prima degli anni Duemila, infatti, la definizione di cambiamento climatico, col suo portato di allarme e preoccupazione per il futuro delle aree più esposte ai pericoli connessi alla desertificazione, alla salinizzazione e all'erosione dei suoli, non aveva ancora fatto il proprio ingresso nell'agenda politica mondiale.
Tra gli anni Ottanta e Novanta, le economie avanzate furono segnate da un generale processo di outsourcing verso le aree in via di sviluppo, semplicemente spostando le produzioni più impattanti in Asia Orientale o in America Latina. Con la crescita della Cina, dell'India, del Brasile, dei Paesi del Sud-est asiatico e di numerosi altri mercati emergenti, le conseguenze delle emissioni inquinanti e del consumo di suolo si sono riversate sull'intero pianeta, tornando a bussare anche alla porta dei Paesi occidentali.
Durante la pandemia si è spesso sentito parlare di Great Reset, un indirizzo generale proposto dal Forum Economico Mondiale ai governi e ai grandi leader imprenditoriali per ripensare definitivamente le economie in chiave sostenibile a seguito dell'impatto che il Covid-19 aveva avuto sulle catene industriali e logistiche a livello globale. Attorno a questo insieme di idee, non nuove nell'ambito del Forum per altro, è sorta anche una teoria cospirazionista da parte di chi vedeva in quel documento un pretesto per distruggere il modus vivendi consolidato nei Paesi occidentali.
La realtà dei fatti ha tuttavia frantumato l'intero dibattito: l'Europa, che rimproverava Cina, India e Russia per non essersi adeguate al termine del 2050 nei loro piani di decarbonizzazione, sta velocemente tornando a produrre carbone per rimediare all'improvviso aumento dei prezzi delle materie prime e agli effetti delle sanzioni contro Mosca, dopo aver già inserito lo scorso 2 febbraio il nucleare e il gas naturale nella tassonomia delle fonti green.
Fermo restando che in generale era ed è tutt'ora fisiologicamente impossibile, almeno nel medio termine, soddisfare l'intero fabbisogno energetico attraverso l'utilizzo delle fonti rinnovabili, già a Glasgow Pechino aveva esortato a guardare in faccia la realtà, senza voli pindarici o frasi propagandistiche ad effetto sulla spinta emotiva innescata dalle battaglie della piccola Greta. La transizione energetica, insomma, è una cosa seria, costosa e tutt'altro che immediata.
La Cina, che non ha mai nascosto le difficoltà di una sfida così vasta, oggi procede speditamente nel suo percorso di attuazione del piano di tutela e protezione ambientale, diversificazione delle fonti e riduzione delle emissioni nocive, anzitutto investendo in mobilità ed infrastrutture sostenibili. Basti soltanto pensare agli oltre 40.000 km di alta velocità ferroviaria, che dovrebbero salire a 70.000 entro il 2035, o ai 16.000 autobus e 22.000 taxi interamente elettrici già operativi nell'innovativa metropoli di Shenzhen.
Come sottolineava lo scorso novembre Sophia Wu su GreenBiz, durante la decade 2010-2019, il colosso asiatico è stato il primo Paese al mondo per investimenti in energie rinnovabili, con un volume pari a circa 760 miliardi di dollari, più del doppio degli Stati Uniti (356 miliardi) e più di tutti i Paesi del Continente europeo messi insieme (698 miliardi). Alla fine del 2020, in Cina risultavano una capacità installata di energia eolica pari a 288 gigawatt ed una di energia solare pari a 253 gigawatt, settori dominati dal colosso asiatico anche in termini manifatturieri: il 30% della produzione mondiale di turbine eoliche ed il 70% di quella di moduli fotovoltaici sono infatti Made in China.
Quella della "civiltà ecologica", insomma, non è una moda o un banale slogan ma affonda le sue radici nell'idea confuciana di armonia tra umanità e natura, inserita ormai pienamente nella governance del Paese già a partire dal 13° Piano Quinquennale (2016-2020). Si tratta di una parte essenziale nel processo di trasformazione, già in atto almeno dal 2015, del paradigma economico cinese, da un modello di sviluppo fondato sul primato della quantità produttiva, trainato dall'export di beni a medio-basso contenuto tecnologico, ad uno basato sul primato della qualità produttiva, trainato dai consumi interni di beni e servizi ad alto valore aggiunto.
La rivitalizzazione delle aree rurali, se letta alla luce del concetto di "doppia circolazione" approvato alla fine del 2020, non sarà una semplice operazione estetica o di marketing turistico, ma avrà il compito di ripensare l'intera catena logistica perseguendo l'autosufficienza, come spiegato lo scorso anno sul bimestrale Qiushi da Tang Renjian, titolare del Ministero per l'Agricoltura e gli Affari Rurali, ridisegnato appena quattro anni fa con compiti e funzioni aggiuntive rispetto al vecchio dicastero. «Per garantire il nostro approvvigionamento alimentare - sostiene Tang - non dobbiamo soltanto garantire quantità sufficienti ma anche varietà e qualità, la cui chiave sta nell'approfondimento della riforma strutturale dell'offerta in agricoltura».
Nonostante l'incremento della produzione e dell'import di carbone registrati lo scorso autunno per supplire al momentaneo crunch energetico in alcune province del Paese, gli obiettivi strategici di Pechino restano gli stessi: riduzione di oltre il 65% delle emissioni di diossido di carbonio per unità di PIL rispetto ai livelli del 2005 entro il 2030; aumento del volume forestale di oltre 6 miliardi di metri cubi rispetto agli stessi livelli storici e nello stesso arco di tempo; raggiungimento del picco di emissioni prima del 2030 e della neutralità carbonica entro il 2060. Il tempo ci dirà come saranno andate le cose.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia