Cina. Cinquant'anni fa la risoluzione che riconosce Pechino, dialogo con Taipei resta la prima scelta

buildings 3973014 1920(ASI) La scorsa settimana, il presidente statunitense Joe Biden è tornato a tuonare contro Pechino, affermando che, in caso di un'invasione militare di Taiwan da parte dell'Esercito Popolare di Liberazione, gli Stati Uniti non esiterebbero ad intervenire in difesa dell'isola. Non si è fatta attendere la risposta del governo cinese. Il portavoce del Ministero degli Esteri, Wang Wenbin, ha infatti ribadito che sulla questione «non c’è spazio per compromessi» poiché Taiwan «è parte del territorio nazionale cinese e gli Stati Uniti non devono mandare segnali sbagliati ai secessionisti».

Esattamente cinquant'anni fa, l'ONU decretava l'assegnazione alla Repubblica Popolare Cinese del seggio fino ad allora riservato a Taiwan. Con la Risoluzione 2758 del 25 ottobre 1971, da un lato Pechino ottenne l'ambito e definitivo riconoscimento internazionale, inseguito per ventidue anni a partire dall'ascesa al potere del Partito Comunista Cinese (PCC), mentre dall'altro, presso l'intera comunità internazionale si affermò il fondamentale principio di 'Una sola Cina', sul quale si sarebbero basate, da lì in avanti, tutte le relazioni diplomatiche bilaterali e multilaterali con il gigante asiatico.

Oggi sono soltanto quindici le nazioni nel mondo a riconoscere Taiwan come Stato e mantenere relazioni diplomatiche con Taipei. Oltre al Vaticano, osservatore all'ONU, compaiono soltanto piccoli attori internazionali: Isole Marshall, Nauru, Palau, Tuvalu, eSwatini (ex Swaziland), Belize, Guatemala, Haiti, Honduras, Nicaragua, Paraguay, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadine. In Assemblea Generale sono dunque 178 i Paesi membri, cui si aggiunge la Palestina come osservatore, a riconoscere Pechino e 57 di loro, tra cui l'Italia, intrattengono con Taiwan semplici relazioni economiche e commerciali.

Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, in base a quanto sancito al Cairo e ribadito a Potsdam, Taiwan, che era stata occupata per cinquant'anni dai giapponesi (1895-1945), fu restituita alla Repubblica di Cina, allora guidata dal Kuomintang di Chiang Kai-shek. L'ultimo atto della guerra civile cinese, però, cambiò tutto. La ripresa dello scontro tra comunisti e nazionalisti, che pure avevano combattuto insieme contro l'aggressione nipponica nel quadro del secondo Fronte unito, evolse a favore delle truppe di Mao Zedong e Zhu De, che il 23 aprile 1949 conquistarono Nanchino, capitale della decaduta Repubblica di Cina, costringendo i fedelissimi di Chiang Kai-shek alla fuga verso l'isola, dove installarono le loro guarnigioni.

Il governo taiwanese, aiutato dagli Stati Uniti, adottò una costituzione che ne dichiarava la continuità con il precedente Stato, recriminando non soltanto il territorio insulare, composto dall'isola principale e da altre isole più piccole, ma addirittura l'intera Cina continentale e la Mongolia.

L'autorità del Kuomintang ereditò dal vecchio ordinamento repubblicano anche il metodo di gestione del potere inaugurato nel 1947, passato alla storia come "Terrore Bianco" poiché basato sulla repressione sistematica di qualsiasi organizzazione sospettata di vicinanza al PCC ma anche di semplici oppositori politici, giornalisti e rappresentanti delle popolazioni native formosane. Conclusosi soltanto nel 1987, dopo l'eccidio di almeno diciannove profughi vietnamiti a bordo di un'imbarcazione di fortuna nei pressi dell'Isola di Lieyu (Kinmen), quello vissuto per quasi quarant'anni a Taiwan resta uno dei più lunghi periodi di applicazione della legge marziale nella storia contemporanea.

 

L'ambiguità di Washington

Il sostegno economico e militare degli Stati Uniti a Taiwan è proseguito fino ai giorni nostri malgrado la risoluzione ONU del 1971 ed il definitivo riconoscimento della Repubblica Popolare da parte di Washington nel 1979, voluto dall'Amministrazione Carter. Le precondizioni fondamentali per la normalizzazione delle relazioni indicate da Pechino e accettate dagli Stati Uniti prevedevano il rispetto del principio di 'Una sola Cina' e la fine del Trattato Sino-Americano di Mutua Difesa siglato tra Washington e Taipei nel 1955.

Eppure, il Taiwan Relations Act, approvato dal Congresso statunitense nello stesso anno, pur avallando le richieste di Pechino e sancendo dunque l'abbandono della dicitura "Repubblica di Cina" in favore del riconoscimento di Taiwan come semplice "autorità locale", ha stabilito che gli Stati Uniti possono «fornire a Taiwan armamenti a carattere difensivo» [Sez. 2, punto B, comma 5], che «metteranno a disposizione di Taiwan prodotti e servizi militari nella quantità necessaria tale da garantire a Taiwan di mantenere una sufficiente capacità di autodifesa» [Sez. 3, punto A] e che spetta al Presidente e al Congresso degli Stati Uniti determinare la natura e la quantità di tali prodotti e servizi, basandosi unicamente sulla loro valutazione delle esigenze di Taiwan [Sez. 3, punto B].

Si tratta del cosiddetto concetto di "ambiguità strategica", in virtù del quale Washington si ritiene ancora oggi legittimata a fornire unilateralmente armamenti al governo dell'isola, contravvenendo di fatto al principio di 'Una sola Cina' e al Comunicato congiunto Cina-USA del 17 agosto 1982, con cui gli Stati Uniti si impegnavano a ridurre gradualmente la vendita di armamenti a Taiwan. Al di là del diritto internazionale, con l'ascesa economica di Pechino, la competizione geopolitica si è fatta sempre più serrata e Taiwan, esattamente come Hong Kong e gli arcipelaghi contesi delle Nansha (Spratly) e delle Xisha (Paracel), torna ad essere un utile strumento per innervosire il rivale e mantenere rovente il clima politico sui mari dell'Asia Orientale.

Le tensioni sono ulteriormente aumentate da quando, nel 2016, il governo taiwanese è passato in mano alla Coalizione Pan-Verde (centro-sinistra), guidata dal Partito Democratico Progressista di Tsai Ing-wen, nato proprio durante la fase di democratizzazione di Taiwan nella seconda metà degli anni Ottanta ed orientato verso posizioni più o meno apertamente indipendentiste, che rivendicano l'esistenza di un'identità locale ritenuta diversa e separata da quella della Cina continentale. Nel corso degli anni, in virtù della piattaforma di dialogo stabilita all'inizio degli anni Novanta (Consensus 1992), il nuovo e più moderato Kuomintang, alla guida della Coalizione Pan-Blu (centro-destra), ha invece assunto un approccio più realista e orientato al dialogo con Pechino sulla base della comunanza etnica, linguistica e culturale tra le due sponde dello Stretto.

Il progressivo riavvicinamento tra Pechino e Taipei ha raggiunto il suo picco nel 2015, quando la città-Stato di Singapore ha ospitato il vertice tra Xi Jinping e Ma Ying-jeou, ovvero il primo storico incontro tra un presidente cinese e la massima autorità politica di Taiwan. Sebbene la sconfitta elettorale del Kuomintang pochi mesi dopo abbia interrotto il dialogo politico, restano sullo sfondo le significative relazioni economiche e commerciali che dalla fine degli anni Ottanta sono costantemente cresciute.

 

Retorica contro realtà

Quella di Taiwan è un'economia fortemente orientata all'export, voce che compone circa il 70% del PIL, e al primo posto tra le destinazioni dei beni e servizi taiwanesi ci sono proprio la Cina continentale e la Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong. Insieme, questi due mercati assorbono il 40% delle esportazioni provenienti dall'isola, staccando piuttosto nettamente in classifica i Paesi ASEAN (18,3%), gli Stati Uniti (12%), l'Europa (9%) e il Giappone (7%). Situazione analoga per l'import, che vede la Cina continentale e Hong Kong al primo posto tra i fornitori di Taiwan, con quasi un quinto del totale [TradingEconomics].

Stando ai dati ufficiali delle autorità di Taipei, nel 2019 l'interscambio commerciale tra le due sponde dello Stretto ha raggiunto quota 149,2 miliardi di dollari, in crescita di quasi trenta volte rispetto ai livelli del 1998. Tra il 1991 e la fine di marzo 2020, inoltre, Pechino ha approvato oltre 44.000 investimenti taiwanesi sul Continente per un valore complessivo pari a 188,5 miliardi di dollari. E ancora, nel 2019 il settore turistico taiwanese ha registrato 2,68 milioni di visite provenienti dal Continente: un flusso destinato ad aumentare in futuro viste la vicinanza geografica, l'elevata frequenza dei voli diretti da tutte le principali città cinesi e la comunanza linguistica, che facilita qualsiasi comunicazione e scambio.

Nel 1993, il governo cinese aveva già prospettato il piano di riunificazione all'interno di un libro bianco dedicato alla questione taiwanese. Pur non escludendo il diritto, garantito ad ogni Stato dalla Carta delle Nazioni Unite, a ricorrere all'opzione militare per affermare la propria sovranità su un territorio internazionalmente riconosciuto come sua parte integrante, Pechino conferiva assoluta priorità alla risoluzione pacifica attraverso l'introduzione di una versione ad hoc del modello 'Un Paese, due sistemi', già applicato a Hong Kong e Macao, fornendo precise garanzie ai «compatrioti di Taiwan».

Il testo prevedeva: la coesistenza tra i due sistemi socio-economici e la possibilità per Taiwan di mantenere il suo modello di sviluppo, il suo stile di vita e le relazioni economiche e culturali sin qui maturate con altri Paesi; un elevato grado di autonomia in ambito amministrativo, legislativo e giudiziario; la possibilità di concludere accordi commerciali e culturali con Paesi stranieri, di disporre di alcune libertà negli affari esteri, oggi già precluse con quasi tutto il mondo, di mantenere le proprie forze armate sul territorio insulare e di inviare delegati nelle sessioni parlamentari e consultive nel Continente.

Lo scorso marzo, China Railways, principale operatore ferroviario del Paese, ha comunicato di aver preso seriamente in considerazione l'idea di costruire una linea sino a Taiwan, rispondendo ad un auspicio circolato tra i netizen cinesi nelle settimane successive all'inaugurazione, avvenuta lo scorso dicembre, del ponte stradale-ferroviario sul mare più lungo al mondo, che collega Fuzhou all'isola di Pingtan, nella provincia costiera del Fujian, proprio di fronte a Taiwan. Se questo progetto dovesse essere portato avanti, il sogno dell'alta velocità Pechino-Taipei potrebbe diventare realtà entro il 2035.

Come ha sottolineato lo scorso 14 ottobre il presidente russo Vladimir Putin, uno dei principali alleati di Pechino, al di là delle esercitazioni militari nello Stretto, tutt'altro che inedite sia da una parte che dall'altra, la Cina non ha affatto bisogno di usare la forza per raggiungere l'auspicata riunificazione nazionale. Ferma restando la Legge anti-secessione del 2005, che prevede l'opzione militare in caso di dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte di Taiwan, nella realtà per Pechino sarà quasi certamente sufficiente aumentare il potenziale economico per incorporare l'isola in maniera del tutto pacifica.

Quando le prossime riforme trasformeranno ulteriormente la Cina, aumentandone la già elevata competitività, innalzando la qualità della vita e sviluppando nuovi elementi di democrazia rappresentativa, Pechino e Taipei torneranno ad essere pienamente espressione di un'unica civiltà, com'era sempre stato fino al 1894.

 

Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

 

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