(ASI) Con l'ultimo vertice dell'Asia-Pacific Economic Community (APEC), svoltosi in videoconferenza venerdì scorso, pare essere timidamente ripartita la diplomazia sul Pacifico, dopo un anno e mezzo di difficoltà, tra limitazioni, chiusure, tensioni, guerre commerciali, accuse e sospetti, a partire dal serrato confronto geopolitico tra Cina e Stati Uniti, comunque destinato a caratterizzare gli anni a venire.
Ospitato virtualmente dalla Nuova Zelanda della premier Jacinda Ardern, il recente summit dell'APEC, organismo nato nel 1989 su proposta dell'allora primo ministro australiano Bob Hawke e per iniziativa di 12 economie della regione, ha senza dubbio mosso un primo importante passo per tentare di riportare il dialogo e la cooperazione al centro dell'agenda dei governi delle 21 economie del Pacifico che attualmente lo compongono, tra cui anche la Russia, entrata all'interno del consesso nel 1998.
«Questa è la prima volta nella storia dell'APEC che i leader hanno partecipato ad un vertice straordinario a livello governativo e tutto ciò riflette il nostro desiderio di procedere insieme fuori dalla pandemia di Covid-19 e dalla crisi economica», ha detto la Ardern in diretta, ricordando come «i mercati della regione APEC abbiano patito l'anno scorso la più forte contrazione dalla Seconda Guerra Mondiale, con la perdita di 81 milioni di posti di lavoro».
La leader del piccolo ma competitivo Paese oceanico ha indicato quelle che ritiene le linee-guida fondamentali per la ripartenza: «La nostra regione ha già risposto con mezzi importanti, tra cui la rimozione delle barriere per un'efficace distribuzione dei vaccini e dei beni annessi, ma c'è ancora molto da fare per superare la crisi. I leader dovranno condividere le informazioni in modo da continuare a costruire un'intesa collettiva della risposta sanitaria della regione al Covid-19 e modellare una reazione economica collaborativa».
L'intervento in videoconferenza di Xi Jinping, riportato da Xinhua, ha toccato tre temi principali: la cooperazione nella risposta alla pandemia, l'integrazione economica regionale e la promozione dello sviluppo sostenibile. Si tratta, nella visione generale del presidente cinese, di questioni legate tra loro. «La pandemia dimostra ancora una volta che viviamo in un villaggio globale, dove i Paesi avanzano e cadono insieme», ha ribadito Xi, ponendo l'accento sull'importanza della solidarietà e della cooperazione per superare questo periodo difficile e lavorare insieme alla costruzione di un «futuro più sano e luminoso per l'umanità».
Xi ha ricordato la decisione di Pechino di rendere i vaccini un «bene pubblico globale», distribuendo sin qui oltre mezzo miliardo di dosi a molti Paesi in via di sviluppo. Ad oggi, l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha autorizzato in via emergenziale l'utilizzo internazionale di due vaccini di produzione cinese, Sinopharm e Sinovac, entrambi basati sulla tecnologia del virus inattivato, a differenza di quelli a m-RNA, sviluppati da Pfizer-Biontech e Moderna, o di quelli a vettore virale, sviluppati da AstraZeneca e Johnson&Johnson. Xi ha poi annunciato che Pechino stanzierà altri 3 miliardi di dollari nei prossimi tre anni in aiuti internazionali a sostegno della risposta economica e sociale alla pandemia nei Paesi in via di sviluppo.
Descrivendo l'apertura e l'integrazione quali risultanti di una «tendenza prevalente», il presidente cinese, oltre al rafforzamento del sistema multilaterale imperniato sul WTO, ha esortato alla liberalizzazione e alla facilitazione del commercio e degli investimenti, a conferma che il concetto di "doppia circolazione" introdotto lo scorso ottobre dal Politburo del PCC rappresenta una rimodulazione nel rapporto tra ciclo economico interno e ciclo economico esterno, non certo una chiusura, nemmeno parziale, al resto del mondo.
Le parole del presidente cinese, pur velatamente, fanno anche riferimento alla politica dei dazi messa in campo dagli Stati Uniti, dove di fatto nulla è cambiato da quando Biden ha preso il posto di Trump alla Casa Bianca, e all'atteggiamento, ritenuto ostile, dell'Australia, dove nell'ultimo anno il primo ministro Scott Morrison ha ingaggiato un aspro scontro diplomatico e commerciale con Pechino. Non va dimenticato, tuttavia, che a metà novembre Canberra ha comunque firmato l'adesione al Partenariato Economico Regionale Globale (RCEP), un mega-accordo di libero scambio, frutto di otto anni di negoziati, tra quindici economie della regione Asia-Pacifico propriamente detta (cioè non comprensiva dei Paesi americani), fortemente voluto da Pechino, destinato ad entrare in vigore entro l'anno.
Il governo australiano, attraverso lo stesso Morrison e il ministro del Commercio, del Turismo e degli Investimenti Simon Birmingham, aveva salutato l'evento dello scorso autunno con previsioni ottimistiche, sottolineando in un comunicato stampa i punti di forza dell'RCEP, come il miglioramento dell'accesso per i prodotti australiani negli altri 14 Paesi aderenti, le opportunità per le imprese australiane in termini di catene di fornitura, i benefici per gli agricoltori australiani, maggiori certezze di investimento per le imprese ed il potenziamento del commercio di servizi, specialmente nei settori della formazione, della sanità, della progettazione, della finanza e della consulenza professionale. Non a caso, venerdì scorso, Xi ha esortato tutti gli interlocutori a promuovere e coordinare l'integrazione economica regionale con l'idea di «stabilire in tempi brevi un'Area di Libero Scambio dell'Asia-Pacifico di alto livello».
Il leader cinese ha poi ricordato il ruolo centrale dell'innovazione nei trend di crescita degli ultimi anni. La pandemia non ha fatto che accelerare il percorso verso una direzione già palese da tempo, che vede l'economia digitale quale «importante area per la futura crescita dell'economia mondiale». Secondo Xi, le economie APEC dovrebbero «sviluppare ulteriori infrastrutture digitali, facilitare la diffusione e l'applicazione delle nuove tecnologie oltre a lavorare per realizzare un ambiente per gli investimenti digitali aperto, equo e non-discriminatorio».
Anche in questo caso, i riferimenti sono impliciti ma piuttosto chiari. I casi legati alle attività di aziende hi-tech cinesi negli Stati Uniti, ostacolate dalle decisioni di Donald Trump ben prima della pandemia, costituiscono ancora un pesante nodo da sciogliere alla luce dell'ordine esecutivo firmato lo scorso 3 giugno da Biden, che ha esteso la entity list aumentando da 48 a 59 gli operatori cinesi banditi ai privati e alle aziende americane. A differenza di quanto sostenuto dalle frange più intransigenti dei sostenitori del tycoon, Joe Biden, non ha dunque affatto ammorbidito la politica della Casa Bianca nei confronti della Cina, confermando tutti i timori dell'establishment per un'oggettiva crisi di leadership internazionale che ha le sue radici nella politica estera "avventurista" dell'ultimo trentennio.
Lo stesso Biden, nel suo intervento durante il vertice APEC, non si è particolarmente esposto parlando dell'importanza della cooperazione multilaterale dell'impegno statunitense per un «Indo-Pacifico libero e aperto». Un leit-motiv geostrategico, quest'ultimo, divenuto consuetudinario da qualche anno a questa parte proprio in funzione velatamente anti-cinese, specie in occasione delle navigazioni militari americane in acque che la Cina rivendica quali parti integranti del proprio territorio nazionale, come lo Stretto di Taiwan (e l'omonimo territorio insulare che il diritto internazionale riconosce alla Repubblica Popolare Cinese dal 1971) nel Mar Cinese Orientale e gli arcipelaghi contesi nel Mar Cinese Meridionale.
Spazio, infine, alla sostenibilità e alla sfida climatica, sottolineate più volte da Xi durante l'intervento all'APEC. Come noto, Pechino ha ormai da tempo intrapreso un percorso di sviluppo green che ha visto il governo centrale e le autorità locali impegnarsi in prima linea per la drastica riduzione delle emissioni di CO2, con l'obiettivo della neutralità carbonica entro il 2060, attraverso massicci interventi in tre ambiti principali: quello energetico, con l'installazione di nuovi impianti eolici, solari, geotermici e nucleari; quello industriale, con il taglio dell'overcapacity nei settori estrattivo e siderurgico; quello della mobilità sostenibile, con la produzione su larga scala di veicoli elettrici, privati e pubblici, e la realizzazione di nuove linee ferroviarie ad alta velocità, che hanno raggiunto l'estensione-record di 37.900 km alla fine dello scorso anno.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia