(ASI) Gli ultimi dati macroeconomici cinesi, presentati l'altro ieri dalla Commissione Nazionale per lo Sviluppo e le Riforme, delineano un quadro probabilmente atteso ma indubbiamente destinato a migliorarsi nella seconda metà dell'anno. Dopo aver dovuto fare i conti con una delle più insidiose pandemie degli ultimi decenni, infatti, la Cina, pur tra mille cautele e misure di prevenzione, si è già rimessa in marcia. Nel secondo trimestre, il PIL è cresciuto del 3,2% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso: una netta inversione di tendenza se si guarda alla pesante contrazione (-6,8%) registrata nel primo trimestre - quando il misterioso nuovo virus aveva messo in ginocchio l'Hubei e in allarme l'intero Paese - rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso.
Yan Pengcheng, membro della Commissione, che ha presentato il rapporto in una conferenza stampa, ha osservato come «oltre al rigoroso controllo epidemiologico sul Covid-19 che ha sostanzialmente bloccato nel giro di tre mesi la diffusione del virus sul territorio nazionale, la Cina ha assunto anche una serie di misure per proteggere le aziende, stabilizzare il mercato del lavoro ed espandere la domanda contro gli shock provocati dalla pandemia, misure che hanno aiutato a sostenere i fondamentali economici».
Tra queste spiccano indubbiamente la diminuzione del carico fiscale a vantaggio di aziende e attività commerciali [non di rado accompagnata da politiche di sostegno a livello locale] e la riduzione del coefficiente di riserva obbligatoria per alcune specifiche banche, in modo da agevolare il credito alle imprese in difficoltà: misure, per altro, in sostanziale continuità con le politiche fiscali e monetarie degli ultimi cinque anni, mirate al sostegno della micro, piccola e media impresa, con particolare attenzione ai settori innovativi e alle start-up.
Yan ha aggiunto inoltre che «la fiducia dei mercati è migliorata, come evidenziato dal fatto che i valori sia dell'indice PMI manifatturiero che di quello non manifatturiero sono rimasti in territorio espansivo per quattro mesi consecutivi, mentre le regioni economicamente più importanti del Paese hanno segnato prestazioni in ripresa». Proprio qualche settimana fa, il Dipartimento Nazionale di Statistica aveva diramato il suo consueto bollettino mensile, indicando un PMI manifatturiero a quota 50,9 punti nel mese di giugno contro i 50,6 di maggio, dopo un bimestre marzo-aprile altalenante ma comunque al di sopra della soglia decisiva dei 50 punti e ben superiore ai 35,7 punti di febbraio, vero e proprio mese nero per il Paese asiatico dopo il drammatico blocco di Wuhan del 23 gennaio scorso. Alla fine di giugno, complessivamente, due terzi dei sottoindici presi in considerazione [14 su 21, cioè cinque in più del mese precedente] hanno segnato una prestazione al di sopra dei 50 punti. Spiccavano in particolare l'indice della produzione (53,9) e l'indice dei nuovi ordini (51,4). Estremamente positivo risultava anche il PMI non manifatturiero, ovvero quello relativo ai servizi, salito a quota 54,2 nel mese di giugno dai 53,6 punti di maggio.
Il rapporto della Commissione di due giorni fa sottolinea inoltre il peso, notevolmente aumentato durante la crisi, di settori emergenti come la formazione a distanza, il telelavoro e la manifattura smart, che hanno permesso ai consumi, drasticamente diminuiti nei primi tre mesi, di ricominciare a salire nel secondo trimestre dell'anno.
Chiaramente non tutto è tornato alla normalità e non tutte le criticità sono state risolte. Restano le difficoltà per alcuni settori che «devono ancora tornare pienamente ai livelli di operatività pre-pandemici» e, più in generale, per le aziende che lavorano con l'estero alla luce dell'evoluzione globale del contagio, ora concentrato soprattutto tra Nord e Sud America. Il rapporto del Dipartimento Nazionale di Statistica delle scorse settimane segnava infatti un indice relativo ai nuovi ordini dall'estero in crescita (+7,3%) nel mese di giugno, ma ancora abbondantemente sotto la decisiva soglia dei 50 punti (42,6).
La rimarchevole capacità di ripresa della Cina ha indirettamente raffreddato, almeno nelle ultime due settimane, anche le polemiche che nei mesi scorsi avevano accompagnato la diffusione mondiale del contagio, in particolare da parte di Washington, dove Donald Trump e Mike Pompeo avevano tuonato contro Pechino, accusandola di aver addirittura creato il SARS-CoV-2 in laboratorio o comunque di aver volutamente occultato dati ed informazioni sull'epidemia. Smentita dalla comunità scientifica internazionale, quella dell'origine artificiale del virus è ormai una tesi quasi scomparsa dal circuito dei mass media, sebbene ultimamente ripescata dall'ideologo della cosiddetta alt-right, Steve Bannon, forse consapevole della sempre più probabile disfatta elettorale di Trump alle prossime elezioni presidenziali di novembre.
Nei Paesi occidentali cominciano anzi ad emergere posizioni in contrasto con la vulgata anticinese degli ultimi mesi, a riprova che il tempo e le ulteriori acquisizioni scientifiche in merito al nuovo patogeno e alla malattia da esso provocata stanno presumibilmente raffreddando gli animi e lasciando spazio ad un confronto più lucido e sereno. Di recente si è rafforzata l'ipotesi, già avanzata tra febbraio e marzo, secondo cui il SARS-CoV-2 sarebbe già presente in natura da anni, dove potrebbe essere rimasto a lungo inattivo per poi attivarsi, grazie alle mutate condizioni ambientali, soltanto tra novembre e dicembre dello scorso anno, quando presumibilmente cominciò a diffondersi [e a provocare la malattia] sotto traccia a Wuhan. L'ultimo in ordine di tempo ad affermarlo è Tom Jefferson, medico al Center for Evidence-Based Medicine (CEBM) presso il Dipartimento di Scienze della Salute delle Cure Primarie di Nuffield dell'Università di Oxford, intervistato dal The Telegraph lo scorso 5 luglio.
Sul piano geopolitico è invece Ken Hammond, docente di Storia dell'Asia Orientale e Globale presso l'Università di Stato del New Mexico, citato dal China Daily, a criticare l'approccio della Casa Bianca verso il gigante asiatico, bollandolo come un tentativo di «distorcere la realtà quotidiana in Cina, interferendo in regioni come il Tibet e lo Xinjiang, promuovendo disordini e dissidenza a Hong Kong attraverso agenzie quali la National Endowment for Democracy (NED) ed imponendo i propri parametri militari, come nel caso delle traversate provocatorie per la cosiddetta libertà di navigazione nel Mar Cinese Meridionale [avviate sotto l'amministrazione Obama, nda]».
Il feroce clima sinofobico avrebbe avuto ripercussioni sociali pesanti anche all'interno degli Stati Uniti dove, secondo Mara Verheyden-Hilliard, confondatrice assieme a Carl Messineo dell'organizzazione no-profit Partnership for Civil Justice Fund (PCJF), si registrerebbe «un'ondata crescente di crimini di odio contro gli americani di origine asiatica e cinese». Secondo quanto sostiene la legale attivista per i diritti civili, «l'FBI sta conducendo indagini in tutti gli Stati» dopo che «gli studenti cinesi sono stati presi di mira ed accademici o scienziati di origine cinese sono finiti sotto attacco». Per Verheyden-Hilliard, l'opinione pubblica statunitense dovrebbe «capire che si tratta di una riedizione delle modalità che portarono all'ultimo grande conflitto tra potenze della Seconda Guerra Mondiale, quando gli americani di origine giapponese venivano demonizzati, colpiti da estreme forme di discriminazione e stigmatizzati come agenti segreti del Giappone».
Le voci dissenzienti - forse un appello anche al candidato democratico Joe Biden, tutt'altro che morbido verso la Cina in campagna elettorale - si aggiungono alle pressanti richieste di carattere economico da parte di numerose associazioni produttive, raccolte attorno alla federazione Americans for Free Trade, che da oltre due anni chiedono al presidente Trump di rimuovere i dazi e porre fine ad una guerra commerciale che sta fortemente penalizzando agricoltori e industriali americani, mettendo a rischio decine di migliaia di posti di lavoro ed aumentando i costi per i consumatori finali.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia