Pechino: protesta Hong Kong sta diventando 'rivoluzione colorata'. Ora saggia gestione sarà decisiva

138291433 15651871671571n(ASI) Ormai da nove settimane consecutive vanno avanti le proteste per le strade di Hong Kong da parte dei movimenti che contestano la governatrice Carrie Lam per aver avanzato la proposta di legge sull'estradizione verso la Cina continentale, poi sospesa e considerata definitivamente "morta" dalla stessa Lam. I manifestanti, tuttavia, non fidandosi delle sue parole, attendono un atto ufficiale che ritiri definitivamente la proposta e le sue dimissioni.

La legge avrebbe consentito di poter estradare verso i tribunali della Terraferma persone ritenute colpevoli di reati particolarmente gravi, impedendo loro la fuga all'estero attraverso il territorio autonomo di Hong Kong. L'intenzione, però, è stata letta dalle opposizioni come la volontà di Lam, su presunta pressione di Pechino, di reprimere il dissenso e forzare i tempi del percorso di integrazione che, secondo la dottrina 'Un Paese, due sistemi', concede all'ex colonia britannica - così come a Macao - un periodo cinquantennale di forte autonomia amministrativa, economica e finanziaria.

Fino al 2047, insomma, Hong Kong dovrebbe continuare ad essere governata secondo il sistema legislativo e giudiziario acquisito durante la dominazione coloniale. Questo, tuttavia, non significa impedire o bloccare il processo di riunificazione all'interno della Repubblica Popolare. I cinquant'anni considerati a partire dal 1997 servono, in realtà, soprattutto alla Cina continentale per modernizzare il suo sistema politico, economico e amministrativo, secondo il percorso al 2050 indicato dallo stesso presidente Xi Jinping al 19° Congresso del Partito Comunista Cinese, svoltosi nell'ottobre 2017.

In particolare Hong Kong - così come Singapore, altra metropoli-modello a maggioranza etnica cinese - è stata a lungo studiata e osservata da Pechino per capire come poter sviluppare anche sulla Terraferma i servizi ed altri settori innovativi. Non è un caso che una delle prime città cinesi a sperimentare il sistema delle zone economiche speciali, all'alba degli anni Ottanta, sia stata la vicina Shenzhen, cuore hi-tech del Paese, oggi al centro dell'importantissima Regione del Delta del Fiume di Perle e di una più vasta Bay Area ad alto valore aggiunto che comprende le stesse regioni amministrative speciali di Hong Kong e Macao, oltre a centri quali Guangzhou, Zhuhai, Jiangmen ed altri ancora. In questo senso, l'avveniristico ponte Hong Kong-Zhuhai-Macao, inaugurato lo scorso autunno dopo circa dieci anni di lavoro, ha rappresentato la definitiva congiuntura infrastrutturale e logistica di quest'area, fra le più ricche e sviluppate al mondo, abbattendo drasticamente i tempi di percorrenza da un luogo all'altro.

Secondo l'idea-cardine del Pensiero di Xi Jinping sul Socialismo con Caratteristiche Cinesi per una Nuova Era, fra i due centenari - 2021 (cento anni dalla fondazione del Partito) e 2049 (cento anni dalla fondazione della Repubblica Popolare) - il governo dovrà varare tutte le riforme necessarie per trasformare la Cina in «un grande moderno Paese socialista, che sia prospero, forte, democratico, culturalmente avanzato, armonioso e meraviglioso». In dettaglio, durante l'ultimo Congresso del PCC, Xi Jinping ha affermato che «per mantenere la prosperità e la stabilità nel lungo termine a Hong Kong e Macao, è imperativo applicare pienamente e rigorosamente le politiche 'Un Paese, due sistemi', 'il popolo di Hong Kong al governo di Hong Kong', 'il popolo di Macao al governo di Macao' ed un elevato livello di autonomia per entrambe le regioni».

Al tempo stesso, il presidente cinese ha anche ribadito che «lo sviluppo di Hong Kong e Macao è strettamente correlato a quella della Terraferma» e che il governo avrebbe continuato a sostenere i due territori «nel processo di integrazione del loro sviluppo all'interno dello sviluppo generale del Paese». La proposta di legge, forse affrettata, sull'estradizione, partita dal governo locale di Hong Kong, non certo da Pechino, intendeva probabilmente andare in questa direzione.

Nei giorni dell'impasse politica, i manifestanti hanno alzato il tiro chiedendo addirittura le dimissioni della governatrice, eletta regolarmente due anni fa attraverso il complesso ma efficace sistema di rappresentanza democratica pensato dalla classe dirigente di Hong Kong dopo la riunificazione alla Cina del 1997. Lo scorso 2 luglio, diversi giovani, molti dei quali a volto coperto, hanno preso d'assalto la sede del Consiglio Legislativo, sfondando i vetri all'ingresso, distruggendo poltrone, computer ed imbrattando l'emblema della Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong, mentre esibivano la bandiera dell'era coloniale. Bandiera che è tornata a comparire anche durante le manifestazioni svoltesi dopo il 9 luglio, nonostante Carrie Lam avesse annunciato che la proposta di legge contestata era da considerarsi de facto cancellata.

Evidentemente sta tutta qui la portata politica e sociale del contraddittorio scontro in atto. Proprio quelle rivendicazioni di democrazia e libertà che i manifestanti - mai sopra il milione in un'area urbana che conta 7,5 milioni di abitanti, dunque una minoranza - gridano settimanalmente in piazza, alternando scontri con le forze dell'ordine a momenti di maggior calma, non avevano alcuna legittimazione durante la dominazione britannica, che per 156 anni (con la sola interruzione dell'occupazione giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale) ha imposto al territorio di Hong Kong governatori inglesi, nominati direttamente da Londra, reprimendo nel sangue il dissenso sociale, come nell'emblematico caso delle rivolte anticoloniali e filocomuniste del 1967.

Il governo cinese, conscio dei tempi, si è ben guardato dall'intervenire direttamente, limitandosi a sostenere Carrie Lam e la polizia di Hong Kong, messa a dura prova da attivisti pericolosi e violenti, pronti a tutto pur di creare disordini e scompiglio. Lo scorso 20 luglio, infatti, le autorità della regione hanno sequestrato un deposito all'interno di un capannone industriale nel Distretto di Tsuen Wan, utilizzato da alcuni militanti del Fronte Nazionale di Hong Kong, un partito indipendentista messo al bando lo scorso anno. All'interno sono stati rinvenuti esplosivi ritenuti «estremamente potenti» e corpi contundenti, fra cui 2 kg di perossido di acetone (TATP), 10 ordigni incendiari, sostanze acide e oggetti affilati.

I numeri forniti dalle stesse forze dell'ordine pochi giorni fa dicono che dal 9 giugno scorso, all'inizio delle proteste, sono stati compiuti 420 arresti, effettuate 1.000 cariche di gas lacrimogeni e sparati 160 proiettili di gomma. La prontezza e i nervi saldi della polizia di Hong Kong hanno fin'ora scongiurato il peggio, garantendo per quanto possibile la sicurezza, senza mai eccedere o abusare dei poteri a propria disposizione. Le grandi manifestazioni a sostegno del governo e della polizia, come quella oceanica del 30 giugno scorso, confermano che gli agenti sono tutt'altro che odiati a Hong Kong, che l'opinione pubblica del territorio speciale è molto divisa al suo interno e che la situazione è ben più complessa della banale narrazione liberal di certi media occidentali.

Resta tuttavia sullo sfondo della metropoli finanziaria un forte interrogativo sull'immediato futuro. Se le proteste dovessero proseguire con intensità eguale o addirittura superiore a quella degli ultimi due mesi, Pechino interverrà con la Polizia Militare (autorizzata a farlo dalla stessa Legge Fondamentale della Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong)? E se il celebre corpo dell'Esercito dedicato a compiti di polizia e sicurezza interna dovesse varcare il confine di Kowloon ed entrare nel territorio di Hong Kong, quali sarebbero le conseguenze politiche internazionali?

Proprio oggi, durante un simposio organizzato a Shenzhen dall'Ufficio per gli Affari di Hong Kong e Macao del Consiglio di Stato cinese, il direttore Zhang Xiaoming ha tuonato, ribadendo che «il compito più urgente e pressante al momento è quello di fermare le violenze, di porre fine al caos e di ristabilire l'ordine», per impedire che Hong Kong finisca «in un abisso». Di fronte ad una platea di 550 persone, fra cui molti deputati, consiglieri politici e studenti di Hong Kong, Zhang ha chiaramente affermato che la protesta sta ormai assumendo le sembianze di una «rivoluzione colorata», ossia il vecchio modus operandi sostenuto negli anni Duemila da governi e/o fondazioni straniere (la più nota fra loro è senz'altro l'Open Society Institute di George Soros), per fomentare disordini e sommosse finalizzati al regime-change in alcuni Paesi e territori non-allineati alla politica estera statunitense o direttamente schierati con Russia e Cina (es.: Serbia 2000, Georgia 2003, Ucraina 2004, Kirghizistan 2005 ed altri tentativi falliti come quelli in Bielorussia nel 2006 o in Iran nel 2009).

Non pochi hongkonghesi fra i sostenitori delle forze di maggioranza chiedono l'intervento diretto di Pechino, stanchi delle violenze e delle intemperanze dei manifestanti più radicali, di recente intenti persino a bloccare le porte scorrevoli nelle stazioni della metropolitana. Eppure, il governo centrale sa che questa partita - dove lo zampino di pezzi di establishment e fondazioni straniere è fin troppo evidente - va giocata con saggezza, pur senza escludere l'opzione militare, confidando che i comportamenti inaccettabili delle frange più estremiste portino molti dei critici pacifici o degli indecisi di Hong Kong a schierarsi con le forze del vasto campo pro-Pechino, tra cui spiccano anche partiti di tendenza liberal-conservatrice o addirittura nazionalista, che in Occidente non esiteremmo a definire di centrodestra o di destra. Fra loro non pochi uomini d'affari, imprenditori e professionisti: persone che sanno bene quali sarebbero le conseguenze economiche e sociali di una Hong Kong a lungo destabilizzata.

 

 

Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

 

 

 
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